non solo foto... ste e dintorni



Ed ecco qualche altra cosina su di me:

Nato il 9 Maggio  del 1976, follemente innamorato della cucina, degli animali e delle belle e divertenti auto...

titolare di:

cinedipendente






e scrittore da strapazzo ecco il mio libro:

THE BLACK SHIP

di Stefano Rossi






Dedicato a:


Prof.sa Corbo, per avermi fatto capire che volevo farlo.




Laura Losio, per avermi illuso di poterlo fare.






C:\the black ship\start.exe
demo
inizia nuova partita
pausa
riprendi partita
salva
carica salvataggio
esci

PRIMO LIVELLO

 

 

 

Gennaio, mattina ore nove


La sveglia programmata nello stereo si accende come tutte le mattine, puntuale, quasi a ricordarmi che anche oggi mi aspetta una giornata banale e triste, uguale a tutte quelle che l’ hanno preceduta negli ultimi due anni.
Comunque il pezzo scelto la sera prima, per il risveglio: “la tarantella” dei Persiana Jones mi da quello spunto positivo per poter raggiungere il bagno e compiere gesti quasi rituali come il lavaggio di faccia e denti. Scontrando nello specchio il riflesso di me nudo provo sempre quel sentimento di disgusto. Spalle piccole e pancetta!!! Sembro una pera.
Mi vesto molto velocemente, con le prime cose che trovo nell’armadio, pantaloni neri con tasconi, felpa con cappuccio, e rigorosamente camicione sopra la felpa. Osservo quasi religiosamente il rito del caffe’, amaro, per gustare meglio la sigaretta che fumero’ dopo. Come tutte le  mattine sono paurosamente  in ritardo, in ufficio si incazzeranno come delle bestie; il principale una volta si rabboniva raccontandogli che la sera prima avevo avuto una buona occasione con una tipa e dettagliandoli minuziosamente i particolari quel grassone si dimenticava del mio ritardo. Ora non funziona più, si e’ fatto furbo e ha capito che una media di quattro serate film porno con quattro ragazze differenti ogni settimana è un tantino esagerata. Ho provato a dirgli che la sera prima ero stato a svaligiare i locali di mezza Genova riempendomi di birra e che quando i “Persiana” hanno provato a svegliarmi io ero ancora in botta piena, credo che comunque avrei fatto meglio a stare zitto.
Mi siedo alla mia scrivania ed accendo il mio computer, comincio a pensare ed accendermi sigarette a ruota libera. Io di mestiere faccio il grafico, disegno videogiochi, sono molto bravo e credo sia per questo che non mi hanno ancora sbattuto fuori. Per la prima volta sto creando interamente un gioco, di solito mi limitavo a curare solo l’aspetto grafico, questa volta invece oltre che dare un volto al protagonista devo anche dargli una vita, e qualcosa a fare.
“The Black Ship”, cosi’ si chiama il mio gioco, e’ la storia di un impiegato modello che rottosi della vita di tutti i giorni prende il volo verso paesi lontani. Il giocatore deve riuscire a fornirgli i documenti falsi e organizzargli la fuga parandogli il culo dagli sbirri, dalla moglie, dai creditori che vogliono fargli la pelle e da quell’idiota del figlio che l’ha sempre reputato un idolo. Bello stronzo, guarda che razza di idolo ti sei scelto! Ma quest’affermazione sul gioco non me l’hanno mica fatta mettere.
Le ore fortunatamente volano quando lavoro, quando il tuo lavoro e’ fatto di fantasia, il tempo in men che non si dica e’ già passato. E’ molto bello creare qualcuno, dargli un volto, dei sentimenti, e fargli fare delle azioni; puoi creare la tua vita alternativa e sfogarti facendogli fare tutto quello che tu faresti nei tuoi sogni più remoti!
Comunque dicevamo: il tempo vola e la mia collega, incomincia a starnazzare sulle regole da mantenere per la buona convivenza in ufficio, ed a dire che il fumo delle mie sigarette la infastidisce e le aumenta l’emicrania, che quando lei era ragazza c’era più rispetto per i colleghi più anziani e che lei non si sarebbe mai permessa di fumare in ufficio. Naturalmente non si e’ dimenticata di aggiungere quanto il fumo passivo faccia male e che sono troppo giovane per fumare. Dio come odio quel genere di persone, Domenica Messa e comunione, la sera circolo dell’azione cattolica pro-anziani e durante la settimana a sentenziare contro l’immigrazione. Comunque sia la mia giornata di lavoro e’ finita, la mia pagnotta me la sono guadagnata e posso andarmene a casa tranquillo. Il viaggio di ritorno e’ sempre molto consolante, adoro guidare, adoro i motori e le macchine ed in particolar modo adoro guidare la mia macchina. Ho dedicato tutto me stesso  e gran parte del mio conto in banca alla mia Ford Escort Cosworth. Ora e’ a dir poco meravigliosa, provo sempre una gran gioia a guidarla, anche perché guidare e’ una delle poche cose che mi riescono veramente bene.
Vedete: guidare per me e’ come farsi una bella cavalcata su uno stallone in mezzo ad un bosco. Tu ed il tuo cavallo da soli, nel pieno della vegetazione con un silenzio sacrale; intorno a voi il mondo intero frenetico e frettoloso, ossessivo e possessivo, freddo ed scomodo. Davanti a voi solo il bosco caldo e accogliente, silenzioso ed armonioso. Ecco guidare per me e’ cosi’! Io, la mia macchina, e la strada! Una scommessa tra me e le curve che mi stanno davanti; la macchina diventa un’estensione del corpo, la strada un prolungamento della vista ed ogni curva un emozione nuova, mai provata, una sensazione ogni volta diversa, una botta di adrenalina viva. Lo stress ed il nervoso accumulato durante la giornata sembrano restare alle tue spalle sull’asfalto ancora caldo dal passaggio delle tue gomme. Tirare in macchina per me finche’ non sarà morte sarà sempre fonte di vita!
Comunque arrivo a casa della mia tipa: bacini, bacetti, soliti convenevoli e che si fa? Boh!? La solita vita: un giretto nella via principale non che’ pedonale, i soliti fighetti vestiti tendenza che più che quattro passi sembra facciano una sfilata per eleggere il più caccirro del giorno, le solite quattro pivelle con vestiti da stupro alla ce l’ho solo io (potrei dire per ognuna la taglia di reggiseno e le misure dei fianchi solo guardandole); in pieno inverno con l’ombelico ben in vista ed il tatuaggio sulla tetta o chiappa sempre in primo piano. I classici quattro stronzi in cerca di due di picche, i soliti tipi loschi che smarronano in piazza, ed i vigili che, visto che Natale e’ appena passato, reintegrano la tredicesima con verbali da infarto. Le solite cose insomma!
Tutto ciò aumenta la tristezza che una giornata come la mia riesce a darti!
Io mi chiedo: possibile che nessuno abbia niente di meglio da fare che passare il suo tempo a cazzeggiare in una via pedonale facendo finta di divertirsi? Nessuno e’ almeno un minimo interessato a vedere un po’ più in la’?  A nessuno interessa cosa c’è più avanti? Davanti a tutto questo, al di la della routine di tutti i giorni, oltre le abitudini della società, oltre i quattro passi fondamentali della vita che di fondamentale hanno solo l’educazione con la quale sono stati trasmessi?
No, non ci credo, non possiamo essere tutti così idioti, nel mondo esistono paesi dove le persone si divertono a giocare su di una spiaggia con palloni di pezze e noi qua che ci lamentiamo perché non riusciamo a sorridere neanche con il giubbottino “Essenza” che fa molto trendy, ed il celly che squilla. Cazzo loro si’ che si divertono, e sapete perché? Perché hanno ancora il piacere di assaporare le cose semplici, di tutti i giorni sapendole apprezzare cosi’ come sono, senza dover per forza trovare un significato ai loro gesti!
Comunque in un modo o nell’altro il pomeriggio e’ andato. Si risale in macchina, finalmente. Autoradio in sottofondo: la prima cassetta dei “Quartiere latino”, direzione casa. Problema cena facilmente rimediato, tra un po’ di stucco, qualche cazzuola ed un po’ di sughero da parete, reduci del restauro del mio monolocale, trovo anche del cibo, piu’ o meno buono, due uova, pancetta, e wurstell. Niente male per un ex cuoco! Mi preparo un buon caffè e rispetto in osservato silenzio il rito della sigaretta dopo cena. Potrei uccidere chiunque provasse a mettersi tra me e lei.























 
SECONDO LIVELLO



Puntuale come un esattore delle tasse il telefono squilla: ore 20.47, la mia ragazza che mi chiede che si fa questa sera.
“Ciao Vladi sono io.. volevo chiederti per questa sera che si fa?”
Come volevasi dimostrare!
“Cinema?”
“No, che palle sempre al cinema, e poi non c’è niente di bello. Caso mai domani”
“Ah sì, hai ragione oggi che è Mercoledì rischiamo di spendere troppo poco, meglio domani che costa tre sacchi di più. Casa mia teneri, teneri?”
“No, non posso ho le mie cose”
“Ah, già è vero. Pista di pattinaggio?”
“Ti ho detto che ho le mie cose!”
“Eh, già perchè tu pattini nuda…”
 “Oh! Vladi non rompere, che se ho mal di pancia non ci vengo a sgambettare su quei cosi”
“Scusa, scherzavo!”
“Scherzi sempre con l’argomento sbagliato”
“Dai lasciamo perdere, che  si fa’?”
“Boh, quello che vuoi”
“Chiamiamo gli altri e vediamo cosa fanno loro?”
“No, non ne ho voglia e poi e’ un periodo che mi stanno sulle palle gli altri”
“Film in videocassetta?”
“Vada per il film, cosa?”
“Decidi tu, ma niente di sdolcinato”
“Per me e’ lo stesso fai tu”
“Io ballo da sola?”
“L’hai già visto un miliardo di volte, lo sai a memoria!”
“Pero’ mi piaceva, Jack Frusciante e’ uscito dal gruppo?”
“Ok, a che ora arrivi?”
“Mi preparo e sono da te”
“See, ma fai presto!”
Il mio presto significa almeno, almeno mezz’ora da quando metto giù il telefono. Comunque verso le nove e quarantacinque sono da lei, solito bacio di routine, un sorso d’acqua e poi via si dia inizio alle proiezioni. Jack Frusciante e’ un film che apprezzo molto e quindi mi scorre via molto veloce. A circa tre quarti dalla fine, Miriam, la mia tipa, si distende sul letto dove entrambi siamo seduti e appoggia il viso sulle mie gambe. Io le accarezzo un po’ i capelli, le faccio due coccole e lei incomincia ad accarezzarmi una gamba. Io dentro di me penso già ad un mezzo film porno, ma poi mi ricordo che lei non può, allora mi scende tutto e mi sposto togliendole il viso dalle mie gambe. Lei si alza sulle braccia guardandomi con quell’aria dolcissima di un bambino a cui gli hanno sottratto la caramella appena scartata, si sposta di pochi centimetri e si riapoggia sulle mie gambe rincominciando il massaggio.
Successivamente ci sono stati un paio di miei tentativi di girare le carte in tavola e prendere il controllo della situazione ma sono stati subito stroncati sul nascere. Il risultato e’ facilmente intuibile: alla fine del film me ne torno a casa con un male alle palle pauroso ed incomincio a pensare di dover morire gonfio.
I giorni che seguono scorrono più o meno tutti con lo stesso ritmo, discretamente lenti, con la loro monotonia brevemente interrotta da qualche evento bene o male insolito. Finche’ un giorno come tanti altri io e la mia tipa ci vediamo con il solito gruppetto di amici, gli ultimi che riesco a sopportare; ma che anche loro ultimamente si stanno pensionando. Ci rendiamo subito conto che qualcosa non va. Non e’ tutto come al solito, il loro comportamento e’ molto più distaccato, meno confidenziale del solito. Provo in modo molto diretto a chiedere spiegazioni ma come risposta mi sento mandare a fare in culo dicendomi che con un infame come me non ci si deve neanche parlare.
 “Ok ragazzi manteniamo la calma, cosa avrei fatto di tanto grave? E poi proprio a voi con cui sono stato fino a ieri?”
Massimo uno che ho sempre reputato un emerito imbecille mi dice che non merito neanche lo spreco del fiato utilizzato per le spiegazioni. Aggiunge inoltre notevoli insulti su mia madre.
Ora premettiamo che io non sono violento e che cerco sempre di ragionare prima di picchiare. Adesso immaginate una merdetta con la R moscia sempre ingellato da fare schifo, vestito tipo contadino che si reca nella grande metropoli e con aria da superiore perché lui ha studiato e voi no!
Ecco questo e’ Massimo!
Ora uniamo il personaggio agli insulti concernenti la mia mamma, aggiungiamo che mentre insultava gli tremavano le gambe per la paura, otteniamo come risultato che uno così te li leva dalle mani gli schiaffi.
Cosi’ sia! Senza aspettare altre sue stronzate gratuite sulla mia famiglia ho appoggiato la mia fronte sulla sua faccia con quanta cattiveria basta per frantumargli il naso. Non passa neanche un minuto, nemmeno il tempo di scaricare la rabbia che mi e’ venuta dentro, che ti arriva Claudio il suo amichetto bello pronto ad aiutarlo. Fortunatamente uno dei terzi che assiste alla scena ha abbastanza buon senso per fermarlo ed insultarlo. In due non e’ corretto. Mi guardo un po’ intorno e vedo la mia ragazza che piange, i miei “ex” amici che mi guardano con una faccia come se avessi appena fatto quello che gli permette di cacciarmi dalla compagnia con un motivo più che valido.
Prendo Miriam per mano, le asciugo le lacrime e ce ne andiamo con le orecchie basse e la coda in mezzo alle gambe, due anni della nostra vita condivisi con loro, da buttare nel cesso ed in bocca quel sapore di sangue lasciatomi dal pugno di Claudio, che è sicuramente meno amaro di quello lasciatomi dal comportamento di quelle persone che fino a pochi minuti prima, ero persino riuscito a stimare.
Ho accompagnato Mi’ a casa e me ne sono andato anche io alla mia. Una volta entrato in casa penso bene che per farmi passare la rabbia non sarebbe stata un’idea malvagia mettere un po’ in ordine. L’operazione suddetta si rivela più lunga e laboriosa del previsto, ma tutto sommato divertente; mi diverte sempre mettere in ordine il casino creato da dei lavori definitivamente conclusi. Mentre raccolgo e ordino barattoli di vernice, cazzuole, sacchi di gesso, pennelli, spugne e quant’altro mi fosse precedentemente servito per dare un aspetto più o meno carino al mio monolocale, noto che effettivamente i lavori di restauro sono venuti decisamente bene per essere stati fatti da me, che di edilizia non ci capisco assolutamente nulla.
Le pareti da bianco sporco sono diventate blu chiaro spugnato, ad eccezione dell’angolo cucina che e’ di piastrelle monocottura. L’angolo tv invece e’ sovrastato da un pergolato in legno e tegole fatto a semicerchio. Il resto dell’arredamento rustico-moderno.
La cosa più bella del mio monolocale e’ la vista. A sinistra e di fronte il mare, in basso la cittadina che si estende fino al porticciolo (ormai diventato zona industriale) e sulla destra le colline che fortunatamente mostrano ancora un paesaggio decisamente campagnolo, nonostante siano a pochi minuti dal centro; all’estrema destra quasi alle mie spalle il monte Gazzo, che nei rari periodi di freddo si può addirittura vedere innevato. Bella la Liguria, neve alle spalle e mare di fronte, tutto ciò in un decina o poco più di chilometri e tutto sotto il campo visivo di un solo sguardo.
Compiacimenti a parte resta sempre il problema. Adesso non ho più amici! E quello che mi fa incazzare e’ che non so’ il perché! A dire il vero io sono veramente convinto di non aver fatto niente di male a nessuno, o forse posso averlo fatto senza rendermene conto; ma se mi fosse stato fatto notare in modo decente avrei potuto anche chiedere scusa!
Ora le scuse non hanno più motivo di esistere.
Tanto per farvi capire il tipo di persona che sono, posso dirvi che mi piace far vedere in me quello che uno si aspetta di vedere, mentre  quelle persone che sapranno guardare un po’ più in la, troveranno il mio vero carattere, la mia vera personalità; che tra un mugugno e l’altro non e’ poi cosi’ male.
Vivo come vesto, con quello che trovo nell’armadio, senza pretese esagerate. Non seguo la moda, o meglio, se la moda di quel momento coincide con i miei gusti personali sono alla moda, altrimenti no. Sono molto testardo, se mi metto in testa una cosa e’ difficile farmi cambiare idea (questo e’ un privilegio riservato a sole tre persone: mia mamma, mio fratello, e qualche volta la mia ragazza) e comunque riesco quasi sempre a portare a termine i miei progetti.
Un unico amore: i motori!!!
In un modo o nell’altro le mie giornate passano, sovrastate da una monotonia più o meno accettabile. Un po’ con la mia ragazza, un po’ con qualche amico recuperato al volo, un po’ con la mia macchina e molto da solo, vivo la mia vita, anche senza riuscire a trovarne un senso, anche senza avere l’entusiasmo che fino a poco tempo fa mi contraddistingueva; semplicemente vivo. Pero’ non e’ cosi’ che dovrebbe essere, non e’ questo che mi ero progettato per il futuro, anche se veramente progetti per il futuro non ne ho mai fatto. Comunque non e’ così che doveva andare, voglio dire io mi sarei aspettato un po’ di più da me stesso ed invece mi sto adagiando verso la prospettiva di me quarantenne sposato e frustrato con relativa pancetta; una trombata all’anno quando la moglie e’ ubriaca al punto giusto, i figli che ti tartassano e ti rincoglioniscono, la macchina sicuramente non sportiva e tenuta male perché intanto cosa vuoi non ho più l’eta’, le partite a carte con gli amici (sempre gli stessi da trent’anni) il Sabato sera, ed il perenne rimpianto di non aver preso qualche altra strada quando ancora potevo farlo.
No, non può finire così, tutto ma non così!
Voglio dire ho ventidue anni posso ancora farlo, posso ancora prendere quella strada; non so ne come, ne quale, ma so che posso farlo. Di certo questo comporterebbe una rottura con Miriam perché lei ci sguazza a stare in casa ad impoltronirsi davanti alla tv ed alla play station.
Ma cosa penso a fare, intanto non avrò mai, ne il coraggio, ne le possibilità di dare un taglio netto al passato rincominciare tutto da capo. Non sarò mai come il protagonista di “The Black Ship” che riesce  a mollare tutto e rincominciare da capo con nuova vita, nuove emozioni, nuovi sentimenti, nuovi volti da guardare, nuove persone da ascoltare, nuova euforia, ed entusiasmo da bruciare; per poi “game over” “new game” e ripartire di nuovo!
Ed invece mi sconvolge la perdita di quattro amici... amici... poco più che conoscenti!
Gli amici, quelli veri, li conti sulle dita di una mano, e soprattutto sai che loro hanno la certezza di ciò che sei e di quello che gli puoi dare!
Gli amici, quelli veri, non ti taglieranno mai dandoti dell’infame, perché sei hai degli amici veri non sei un infame.
Comunque sia la serata incomincia a farsi affamata e per questa sera ho deciso di farmi qualcosa di buono, anzi no, penso che andrò al ristorante, questa sera si festeggia non so cosa ma si festeggia.
Scendendo le scale incontro la mia solita vicina, una tipa sui 19 anni, capelli neri come il carbone, occhi grigio cartazucchero, un fisico da infarto: culo da urlo e tette da brivido. La classica vicina dei sogni erotici di ogni ventiduenne che si rispetti. Mi saluta sempre con quel sorriso molto malizioso e quell’occhiata tipo “ti ho già scopato con gli occhi”, sono sempre più convinto che abbia una gran voglia di farmi. Rispondo al suo saluto con il solito tono alla “vorrei ma non posso”. Managgia ai fedeli!!!
So’ che un giorno o l’altro mi mangerò le mani per non essermi mai concesso lo strappo alle mie regole, e voglio dire, uno strappo centodiecisessantanovanta non ti capita tutti i giorni.
Eh! Va beh!
Salgo in macchina e telefono a Miriam per vedere se le va di festeggiare insieme a me. Risposta scontata:
“No Vladi non ho sacchi e poi mia mamma sta gia’ preparando”.
Vorrà dire che festeggierò da solo.






 
TERZO LIVELLO




Direzione ristorante dove si puo’ mangiare bene senza lasciarci uno stipendio solo per aver aperto il menu’, e soprattutto dove non ci siano finti capitalisti con Rolex da mercatino delle pulci sul polsino e mogli ingioiellate con zirconi. Niente finta classe stasera, solo ristoranti stilosi, soprattutto nel cibo. Finisco con il sedermi ad un tavolo de “Il bastian contrario”, ordinando pappardelle tartufate al caciocavallo e noci, porchetta alla piastra con contorno di patate al forno, chianti “Innocenzo IV” da bere.
Mi serve una tipa molto carina e giovane, ha gli occhi furbi ed un culetto marmoreo quasi quanto il seno e si direbbe sia molto sveglia; si e’ appena concordata con il tipo di fronte a me per una serata nel locale più trasgressivo di tutta Genova.
Ore 20.47 squilla il telefonino, e’ Miriam.
“Allora hai finito di mangiare”
“Ma veramente mi sto ancora picchiando con una porchetta alla piastra e dell’ottimo vino”
“Ancora? Ma a che ora arrivi?”
“Non lo so, finisco e vengo a prenderti”
“E poi che si fa?”
“Quello che vuoi, dopo un pasto cosi’ sono pronto ad affrontare qualunque cosa”
“Giochiamo alla play da te?”
“Se ti va”
“Sbrigati a finire, cosi’ prima arrivi, prima esco, prima mi fumo una siga”
“Ok, ammazzo la porchetta, prendo il caffè ed arrivo”
“Muoviti”
Chiamo la cameriera che nel frattempo si sta mangiando il tipo di fronte a me con occhiate alla “ora ti trombo li dove sei” e mi faccio portare caffè e conto. Quest’ultimo é piuttosto scioccante, settanatduemilalire!!! Mi sa’ che per un po’ fumerò MS. Esco dal locale e vado a prendere la tipa, direzione casa mia con relativa play station. Arrivati sotto casa come al solito non trovo posto e mi tocca lasciare la macchina in doppia fila, cosa che mi irrita particolarmente, ma la mia pigrizia m’impedisce di usare il box. Apro la porta di casa mi levo la giacca e mi trovo Miriam che mi salta letteralmente al collo; inizia a baciarmi con una passionalità di cui non la credevo capace, e mentre lo fa con una mano mi sfiora il sedere e con l’altra mi sta già slacciando la camicia (evidentemente non è più indisposta). Per non restare troppo indietro inizio a palparle il sedere molto delicatamente, salendo su lungo i fianchi fino a trovare l’orlo della maglia e sfilargliela. Il reggiseno di raso blu lascia trasparire le forme del suo perfetto seno, dei suoi capezzoli inturgiditisi appena sfiorati dalle mie dita. Mi faccio sfilare la camicia e le tolgo il reggiseno, continuando a passare le mie dita su quei seni cosi’ duri da sembrare finti; lei inizia a baciarmi l’orecchio scendendo piano,  piano fin giù al capezzolo che succhia lecca e mordicchia con notevole maestria. Sento che incomincio ad eccitarmi notevolmente, cosi’ la prendo in braccio facendomi cingere i fianchi e la porto in camera da letto. La butto letteralmente sul letto e mi ci corico a fianco, incomincio a baciarle la pancia e leccarle l’ombelico, salendo su fino ai capezzoli, mentre con l’altra mano dal seno scendo fino ai jeans che sbottono per entrare a cercare l’orlo degli slip. Mentre la mia lingua gioca con i suoi capezzoli ormai diventati quasi pungenti, la mia mano supera gli slip trovando due grandi labbra gonfie e bagnate da stimolare. La masturbo a lungo portandola sull’orlo dell’orgasmo, per poi girarmi facendola passare sopra di me e continuando a masturbarla passando pero’ da dietro. A questo punto sente di avere lei il gioco in mano ed incomincia a farmi impazzire succhiandomi a lungo i capezzoli e strofinandosi sopra i miei pantaloni che quasi esplodono. Continua a baciarmi sempre più in basso sino ad arrivare all’ombelico e mentre la sua lingua gioca con il mio piercing le sue mani mi sfilano pantaloni e boxer quel tanto che basta per permettere di infilare il mio membro in mezzo al suo seno. Prendo i suoi seni fra le mani ed incomincio a farli roteare pressandomeli sul pene. Sono visibilmente eccitato quando lei riprende il controllo della situazione, riniziando a baciarmi ancora più in basso, scendendo oltre il glande e succhiandomi i testicoli per poi risalire su con la lingua fino al glande ed inghiottirmelo. Le sue calde e soffici labbra continuano a far su e giù mentre lei ruota su se’ stessa presentandomi un clitoride alluvionato che leccherò fino a farle avere un orgasmo. Lei poi si mette seduta e scivola sopra il mio pene ormai tanto eretto da scoppiare, lo prende tra le mani e se lo appoggia fra le gambe facendolo poi penetrare all’interno del suo corpo e sussultando di piacere. Dopo circa quaranta minuti di amplesso esplodo in una abbondante eiaculazione. Fine dei giochi.
Il resto della notte scorre più o meno lento, un
po’ sonnecchiando, un po’ fumando,chiaccherando, ed un po’ con dell’altro buon sesso.
Risultato: alla mattina quando i “Persiana” entrano violentemente in scena io non riesco ad alzarmi e preparami per andare al lavoro. Miriam sonnecchiando borbotta qualcosa tipo: “non andare stai ancora un po’ qui con me”, ci manca lei a scoraggiarmi, come se non fossi già poco invogliato di mio.
Salgo in macchina e mi dirigo verso l’ufficio, dopo una decina circa di chilometri incontro una tipa che fa l’autostop e dopo essermi accostato scopro che non parla una parola di italiano ma riesco a malapena a capire che le serve  uno strappo sino a Varazze. Visto che comunque passo di li...
Durante il viaggio lei mi racconta che e’ partita due mesi fa dalla Croazia e che lei ed il suo ragazzo hanno fatto il giro dell’Europa in autostop, vivendo di quello che potevano. Vendevano braccialetti, collanine e tutte quelle cose che riuscivano a costruirsi. Io stupito di vederla sola le chiedo dove sia il suo ragazzo; e scopro che a Frejus lui l’ha mollata per una francesina decidendo di fermarsi lì in pianta stabile, mentre lei deve raggiungere Varazze dove ha un appuntamento con la sua “nuova amica” che la ospita per qualche giorno. O perlomeno così credo di aver capito, il mio inglese lascia molto a desiderare. Comunque tra una chiacchera e l’altra siamo arrivati a Varazze dove mi chiede se posso accompagnarla fino sotto casa della sua amica; mi passa un foglietto malconcio e consumato dalle tasche dei jeans dove c’è scritto l’indirizzo di casa di questa tipa. L’accompagno fino sotto casa.
Prima di scendere dalla macchina mi straringrazia e mi regala una delle sue collanine ed aggiunge una frase in inglese mal parlato che credo volesse dire qualcosa del genere: “Se tutti i ragazzi fossero come te io sarei ancora fidanzata”.
Più di mezz’ora di ritardo, cosa gli racconto al capo? Facciamo che a questo punto gliela racconto per bene e non ci vado neanche, torno a casa e mi passo la giornata con Miriam. Gira la macchina e torna indietro, a parte i soldi della benzina che ho speso per arrivare fin qua ho tutto da guadagnarci. Il tragitto di ritorno e’ tormentato dal pensiero di Jenny che se la spassa in giro per l’Europa fregandosene di tante stronzate. Quella ragazza in dieci minuti mi ha insegnato già qualcosa, mi ha insegnato a sorridere anche quando e’ difficile, anche senza ragazza, senza macchina o senza soldi. Mi ha insegnato che si può sorridere anche senza motivo!! Deve essere bello riuscire a vivere spensierati senza aver bisogno di nulla, solo di se’ stessi e del proprio buon umore.  Quando incontro certe persone, e purtroppo non se ne incontrano molte, le invidio sempre un po’, invidio il loro modo di fare così spensierato e maledettamente allegro, invidio il loro sorriso così sincero e pulito, invidio il loro atteggiamento allegro di fronte alla vita anche quando non avrebbero proprio un cazzo da ridere.
Arrivo a casa, pronto a dover svegliare Miriam e dirle che oggi sarò tutto il giorno con lei, ma al suo posto trovo un letto vuoto e già rifatto. Anche lei e’ andata. Pazienza rovinerò volentieri il suo lavoro rifilandomi tra le coperte per almeno altre due ore. Dopo circa un quarto d’ora quando il ricordo di Jenni mi sta abbandonando e Morfeo mi sta già coccolando sento suonare alla porta: Miriam non può essere, lei ha le chiavi, non aspetto nessuno perché dovrei essere al lavoro... guardo dallo spioncino... Alessia la mia vicina di casa centodiecisessantanovanta, che faccio? Se la faccio entrare non mi molla più, e poi non so se potrei resisterle a lungo. Se non la faccio entrare e ha sentito che sono in casa si potrebbe offendere e mi scazzerebbe un casino.
Ok la faccio entrare e vediamo che succede. Apro la porta e me la trovo davanti praticamente nuda, pigiamino di seta bianca esageratamente trasparente, senza reggiseno con relativi capezzoli turgidi perfora pigiama, slip di pizzo: più pizzo che slip. Da infarto!
“Ciao Vladi niente lavoro oggi?”
“ EHHHH!!? No! Non ne avevo proprio voglia.”
“Posso entrare?”
“Certo accomodati pure”
“Sai ho sentito che eri in casa e volevo chiederti un piccolo favore”
“Beh, dimmi, se posso...”
“Avrei delle foto da spedire alla mia agenzia via Internet, solo che non sono capace e devo fargliele avere entro domani”
“Non ti preoccupare, te le invio subito”
“Tieni sono queste, naturalmente sono foto professionali, spero che tu non mi giudichi male dopo averle viste”
“Ma figurati, il lavoro è lavoro”
Nuda, bellissima, assolutamente niente fuori posto, la ragazza con il corpo ed il viso più bello che io abbia mai visto. Se devo essere sincero e’ una della poche ragazze che sono più belle nude che vestite! Come si può resistere a cotanto ben di Dio!  Ma il tradimento non e’ nel mio stile, le faccio il favore e respingo, combattendo parecchio con me stesso, le sue miriadi di avances. Bella figura da ricchione, meglio ricchione che infame. Non potevo, non potevo veramente, non dopo quello che ho passato questa notte con Miriam. A proposito di Miriam, non si sa mai che le vada una colazione insieme.
Le telefono quando sono già in macchina e la sua risposta fortunatamente è positiva.  La passo a prendere e ce ne andiamo all’ Illusion, un locale molto carino in cima ad una collina. L’ Illusion ha un grande pregio: la posizione, da lassù si può guardare tutta Genova e superarla fino in mezzo al mare dove nelle giornate limpide si può intravedere la punta della Corsica. Ci sediamo ad un tavolino il più vicino possibile alla vetrata ed ordiniamo due colazioni molto abbondanti. I tavolini, quelli molto vicino alla vetrata, sono separati da Felci e fiori misti, in modo che ogni tavolo sia a se’ stante. Adoro quel locale proprio per questo, perché sei li’ da solo con la tua tipa e ti puoi fare i fatti tuoi senza che nessuno ti guardi o ti ascolti. Tu e la tua tipa con di fronte a te il mare!
L’Illusion era nato come un locale di lusso, di quelli veramente eleganti, poi non ha funzionato ed e’ stato acquistato da questi nuovi proprietari che hanno abbassato molto le pretese sulla clientela e conseguentemente dato all’Illusion quella fama che si merita. Ora questo e’ un locale tendenzialmente romantico come ce ne sono molti altri, pero’ funziona, cavolo se funziona. Caffè, latte, thé, croissant, crostini di segale, pane caldo imburrato, succo di frutta, marmellata alla frutta e di castagne, nutella e miele; tutto questo per sole due persone ed all’alba delle dieci. Praticamente un sogno. 
Dieci e quarantacinque, dopo quelle duemila sigarette e la pancia che sta per esplodere decidiamo di alzarci ed andarcene a casa. Saliti in macchina lei mi fa:
“E se a mezzogiorno venissi a mangiare da me?”
“No Mi, non è il caso, tutte le volte che vengo tua madre mi prepara un pranzo di Natale e mi obbliga a mangiarlo tutto; e dopo ‘sta colazione non ce la farei”
“Sì va beh! Però è una vita che non vieni più a mangiare da me”
“Ma ti scazza perché non mangiamo insieme o perché scazza a tua madre?”
“Un po’ tutte due, più perché non mangiamo insieme”
“Allora facciamo così: ci compriamo la roba per un bel pranzetto, ci affittiamo un film per dopo pranzo ed andiamo da me”
“Ok, ma devo chiamare a casa e non ho più soldi sul telefono”
“Chiama dal mio”.
Mamma avvisata e spesa da fare: IL DRAMMA DEL SUPERMERCATO!!
La principale ragione per la quale in casa mia non c’è mai niente di particolare da mangiare, nonostante il mio passato da cuoco, è per l’odio che nutro nei confronti dei supermercati. Un’orda di persone che si affannano a trovare la differenza di anche solo due lire su un chilo di merce per poi uscire e giocarsi venti o trentamila lire al Super Enalotto. Tutto ciò è quasi più ridicolo delle palestre. Voglio dire tutta la nostra vita è ridicola, abbiamo inventato di tutto per non fare più sforzi: praticamente non camminiamo più, non solleviamo più un peso, addirittura abbiamo la “comodità” del telefonino. Le scale mobili negli ipermercati e nei cinema, i computer ed i robot che fanno tutto per noi, i telecomandi, Internet, tutte cose che tolgono il nostro quotidiano sforzo intellettivo ma soprattutto fisico; e poi ridicolissimi paghiamo uno sproposito al mese per andare a faticare nelle palestre. Ma saremo stronzi?!
Comunque sia la spesa abbiamo dovuto farla ed il pranzo non si prospetta niente male: pappardelle all’astice e gamberoni al brandy, tutto rigorosamente congelato. Arrivati in casa io mi metto a cucinare mentre Miriam si piazza davanti alla televisione come al solito. 
“Mi è quasi pronto”
“Ok metto tavola”.
QUARTO LIVELLO



Pranziamo in assoluto silenzio per non rischiare di perdere una puntata di uno di quei banali e scontati varietà televisivi dell’ora di pranzo. (Scusa mi passeresti il vino? Sì certo) (Come é il pranzo ti piace? Sì e’ buono) (Cosa si fa dopo il film? Quello che vuoi) (Uh!  Guarda quello e’ lo stesso che c’era l’altra sera a Sarabanda! Ah, sì vedo), e via dicendo con frasi come queste. Un dialogo profondo, intellettualmente impegnato. E dopo un discorso come questo, che in un certo senso ti fa riflettere su te stesso e sulla tua vita, mi ci vuole un buon caffè ed una bella sigaretta. L’accendo faccio i primi tiri con l’assoluta certezza di non potermela gustare tutta, fino in fondo.
“Vladi me ne lasci metà?”
“Te ne offro una”
“No, non ne ho voglia di una intera”!
E così è riuscita per l’ennesima volta fare ciò che più mi innervosisce: mettersi tra me e la mia sigaretta del dopo pranzo! Scoglionato come solo io le passo metà sigaretta.
“Puoi anche evitare di darmela se ti dà così fastidio! Fai una faccia che sembra ti abbiano rubato chissà cosa, se volevi fumarla tutta bastava dirlo.”
 E intanto se la sta fumando lei.
“No Mi, lascia perdere non fa niente dopo tutto te lo dico solamente ogni volta che fumo una sigaretta in tua presenza e che tu rigorosamente me ne freghi metà”
“Ma hai voglia di litigare?”
Non le rispondo neanche, prendo gli attrezzi e mi butto sotto il lavandino che da qualche giorno non funziona più molto bene. Mentre sono immerso in una riparazione di quelle molto poco professionali ma decisamente anti conto dell’idraulico squilla il telefono:
“Mi, rispondi tu che non posso lasciare sto coso”
Al nono squillo si degna di rispondere.
“Vla, è Scianca, gli dico che stai aggiustando una cosa, di chiamare dopo?”
“No passamelo, tanto ormai ho avvitato quel malefico tubo”
“Ciao Scianca che si dice?”
“A giudicare da quanto tempo avete impiegato per rispondere e dal tuo tono di voce direi che eri intento ad aggiustare Miriam”
“A dire il vero ho le mani bagnate e le ho appena tolte da un buco, ma non da quello che pensi tu, purtroppo”
Interviene Miriam “Cosa state confabulando porci!”
“No niente, Scianca mi chiedeva cosa facciamo oggi”
Scianca: ”Vladi, veramente io oggi sarei al lavoro, a proposito di lavoro: che cazzo ci fai in casa non dovresti essere a lavorare anche tu?”
“Ma se sai che dovrei essere a lavorare che cazzo mi hai chiamato a fare a casa”
“Oggi vi ho visti in giro, ma perché non sei a lavorare?”
“Ma no, niente, sono malato, non senti come sono malato?”
“Immagino, di quelle malattie tipo scazzo da ufficio”
“Bravo vedo che ci siamo capiti, ma si può sapere perché mi hai telefonato?”
“Volevo solo sapere se hai il numero di Dado, che stasera ci dobbiamo giocare mezza tromba su dal Passo. Ha detto che mi dà almeno quattro secondi”
“Con che macchina viene?”
“Con il Willy”
“Se vuoi ti presto l’ Escort”
“Davvero?
“Ma sei scemo?! Non la presterei neanche a Sainz, figurati a te che te ne metti di tetto una al mese!”
“Fanculo Vladi ce l’hai ‘sto numero sì o no?”
“Sì, scrivi 3393358742, a che ora è la cosa?”
“Stanotte all’una, partenza dalla chiesa del Fado, vieni?”
“Certo che vengo, altrimenti chi ti porta a casa?”
“Dai Vla, che porti pure sfiga!”
“Ciao Scianca”
“Ciao Vladi”
Miriam: “cosa voleva?”
“Il numero di Dado che stasera si giocano mezzo milione al Passo”
“Dado è un discreto cane al volante, in teoria dovrebbe stare dietro”
“Se Scianca riesce ad arrivare in cima sì!”
“Guardiamo il film?”
“OK”
Il pomeriggio scorre con il peso della lenta digestione  del succulento pasto. La sera fa’ presto ad arrivare e con lei si porta le solite domande:
“Vla, che si fa stasera?”
“Boh!? Non saprei, hai qualche idea?”
“No nessuna in particolare e poi scarseggio anche di soldi”
“Mi, non so che dirti, ogni sera e’ la solita solfa, bene o male in ‘sta schifo di città ci sono poche cose da fare, quindi o ti fai andare bene quelle o ti fai andare bene quelle!”
“Va beh! Cioè senza che ti scaldi tanto, mi hai fatto passare la voglia di uscire”
“No! non è questione di scaldarsi o meno, ma semplicemente ne ho le palle piene di sentirti dire che non sai cosa fare e che vorresti una cosa nuova , mai fatta prima. Cazzo Miriam è tre anni che usciamo assieme ed è più di venti che viviamo in questa merda di città, non c'è più niente che non abbiamo ancora fatto, o meglio non c'è più niente che non abbiamo ancora fatto e che non costi troppo per farlo!  E poi mi fa incazzare il fatto che solo con me non vuoi mai fare niente, ma se ci sono gli altri ti va bene tutto”
“Se va beh, Vladi basta che abbia sempre ragione tu!”
“Sì, sì, continua a non affrontarli i problemi ed a tagliare i discorsi così poi finisce che uno dei due si scogliona, e vedi che qualcosa da fare lo trovo, ma con un’altra però”
Poi m’infilo l‘eskimo in fretta ed esco sbattendomi la porta alle spalle. Non riesco a sopportare i capricci  di Miriam, vuole sempre fare quello che vuole lei e nel modo in cui vuole lei. E’ stata viziata da piccola ad avere sempre tutto come e quando lo desiderava. Non sa cosa vuol dire adattarsi ad una situazione riuscendo a divertirsi con il poco che quell’attimo ti può dare. Lei ha sempre bisogno di gestire la situazione, di averne il controllo; quando e se si rende conto che questo non puo’ farlo diventa noiosa, capricciosa, assillante e pesante, senza accorgersi che l’ unico risultato che può ottenere è quello di far irritare ed innervosire le persone che le stanno accanto, portandole ad essere intransigenti anche quando non ce ne sarebbe bisogno.
Sò che è un periodo molto strano per me. Dovrei essere abbastanza contento, ho tutto quello di cui ho bisogno e forse anche di più, ho una bella macchina, un appartamento mio che in un modo o nell’altro sono riuscito a far diventare carino, ho un buon lavoro che mi piace e che mi rende abbastanza da farmi vivere in modo più che decente, ho una ragazza di cui tutto sommato sono innamorato. Ma forse tutto ciò è proprio quello che non serve, quello di cui non ho bisogno, il superfluo. E’ proprio qui il problema, ho tutto quello che sarebbe evitabile ma ho perso il valore della semplicità delle cose.
Invidio e continuerò sempre ad invidiare quelle persone che vivono in casette mal costruite su di un’isola andando avanti con quello che riescono a racimolare; ma lo fanno sorridendo. Loro a differenza di me sono riusciti a capire dove si trova la felicità, si sono resi conto che c’è sempre uno scalino da scendere. Sanno bene che per non scenderlo bisogna innanzitutto avere lo spirito e solo poi le possibilità.  Io e con me quasi tutte le popolazioni così dette civilizzate sappiamo solo lamentarci, non sappiamo guardare oltre il muro delle nostre esigenze, o meglio, delle nostre comodità.
Ma questo è un discorso troppo complesso e filosofico ed ora sono troppo incazzato per riuscire a ragionarci sopra a mente fredda e lucida come l’importanza dell’idea che in me sta nascendo richiede. Dopotutto incomincio a credere che ci sia più verità nei giochi e nella fantasia umana che nella vita di tutti i giorni, recitata come burattini in un baraccone.
Credo che non sempre la vita possa andare come la si è sognata da bambini, credo che troppe volte ci troviamo a decidere cose che non siamo neanche in grado di valutare, credo che con un lavoro medio ed uno stipendio medio non si possa fare molto di più che sognare, ma credo che siano proprio questi sogni a darci la forza di andare avanti in mezzo ad una frenetica corsa che ci priva della possibilità di decidere dove e con quali mezzi andare, credo che se avessimo molto meno apprezzeremmo molto di più, credo che non basti la fidanzata, la passione o la soddisfazione sul lavoro a tappare quei buchi lasciati dallo stress delle corse, delle incomprensioni e dei litigi senza motivo, credo che non basti uno sfogo come questo per farmi guardare il mondo sotto un aspetto migliore, credo che il mondo di migliore non abbia più un cazzo da farci vedere, credo che da oggi per tutti quelli che verranno dopo di noi non ci sarà molto di più che lamentele simili alle mie, credo che ci facciamo coinvolgere troppo dalla vita dimenticandoci che prima o poi finiremo tutti sotto una lastra di marmo.









 
QUINTO LIVELLO



Tra lamentele e ragionamenti filosofici mi sono ritrovato in macchina, direzione Turchino. Manca ancora parecchio alla scianca e ho ancora tutto il tempo di bermi un buon Mezcal da Umbro, in cima al passo, e tirarmi due marce tanto per togliermi di dosso il nervoso che Miriam ed i miei ragionamenti mi hanno messo in corpo. “Da Umbro”  è il classico bar che si trova in cima a tutti gli scollinamenti liguri. Quattro vecchietti, sempre gli stessi, che si giocano un bicchiere di rosso alle carte, qualche giovane abituato alla vita da anziano che si lamenta perché non c’è lavoro, ma è già all’ennesimo bianchetto della serata ed una montagna di fumo che impregna i clienti ed i loro vestiti. Ecco questo è “Da Umbro”, ma potrebbe essere qualunque altro bar di collina.
Mi bevo un paio di Mezcal pensando a cosa potrebbe fare in questo momento Miriam e scacciando la voglia di telefonarle.
Risalgo in macchina.
Sto scendendo piuttosto lesto quando nel bel pieno di un curvone molto veloce ti becco Dado completamente fuori mano. In un modo o nell’altro, non saprei dire esattamente come, riusciamo a non picchiarci dentro. Scendo bestemmiandogli dietro le dovute madonne. Dado mi spiega che e’ molto nervoso per la scommessa di stasera, sa bene che Scianca è molto più bravo di lui e che quasi sicuramente gli starà davanti.  Dopo avergli dato la dovuta botta di coglione (voglio dire ci si è giocato mezza zucca mica spiccioli) gli spiego che conosco molto bene Scianca, anche perché mi ha imbarcato in queste scianche molto volte più di lui (non a caso lo chiamiamo così), e che di solito tende a sbagliare l’inserimento veloce dopo la esse del bivio per il campo sportivo.
“Dado o lo passi lì o prega che sbagli qualcosa prima di arrivare in cima, altrimenti ti dà un minuto pieno”
“Un minuto secco non me lo prendo da nessuno, neanche dai tuoi duecentocinquanta cavalli Vla!”
“Non istigarmi Dado che ci metto un attimo a salire in macchina e dartene cinque di minuti”
“Solo perché c’è troppa differenza di motore”
“Io direi di pilota”
“Non ci scommettere”
“Non tolgo mai la pelle al lupo prima di averlo ucciso, ma non ti preoccupare che avremo modo di spingerci a vicenda”
“Va beh! Vladi vado a provare ancora due curve che tra poco arriva Scianca.”
“In bocca al lupo”
“Crepi, ci vediamo al Fado”
“Ci sarò”
Chiesetta del Fado ore una e dieci, fa relativamente caldo, ci saranno quasi cinque o sei gradi. L’illuminazione ad intermittenza del lampione rotto contribuisce notevolmente ad aumentare l’agitazione di Dado. Il suo Clio Williams è fermo a lato strada con il motore acceso da quasi dieci minuti e lui è già alla quinta sigaretta, centocinquantesima della giornata.
Quei quattro amici che sono venuti ad assistere iniziano ad andare a cercarsi una curva decente per guardarsi in sicurezza la cosa, ed io incomincio a credere che Scianca non si presenti più; di solito  è molto puntuale.
Ore una e venticinque, Dado si è finalmente deciso a spegnere la macchina, io opto per spostare la mia e metterla in un punto meno a rischio.
Ore una e quaranta, arriva Scianca con la sua Opel Astra Gsi che fa un casino infernale. Soliti convenevoli, due saluti, quattro battute cattive su chi arriva in cima per primo o semplicemente su chi ci arriva. Scianca è molto tranquillo, troppo sicuro di vincere.
Ore due e sette, Dado e Scianca  sono in macchina di fronte ad Anto, che deve dare il via. Si sente Anto che un po’ troppo euforico urla:
cinque, quattro, tre, due, uno...
Sia Dado che Scianca non gli danno il tempo di terminare che partono lasciando due dita di gomme sull’asfalto. Da dove sono io si  vedono sì e no una decina di curve, ma non ce n’ è stato il caso.
Alla quarta curva Dado che era davanti si allarga troppo per impostare un novanta gradi molto secco e Scianca si gioca l’infilata in staccata all’interno; è troppo alla corda per tenere una traiettoria decente!
La macchina s’ intraversa, scoda sul rail, e si gira di tetto!
Fine della serata e fine di un bel gioco!
Solo un paio d’ore più tardi è arrivato il carro attrezzi, seguito naturalmente,  da una volante. Solite spiegazioni del tipo: non andavamo forte, mi sono addormentato, no guardi la patente mi serve per lavorare, etc, etc, etc.
Ore quattro e ventidue: Dado e Scianca se ne vanno assieme sul Clio di Dado, entrambi con un verbale da infarto. Io e gli altri, quasi più delusi di Scianca che ha sfasciato la settima macchina in due anni, facciamo lo stesso.
Me ne torno a casa molto tranquillo, velocità anti velox ed anti verbale. Arrivato in casa, appoggiata sul cuscino del letto bene in vista, trovo una lettera di Miriam. La lettera è estremamente lunga, ma riassumendola posso dire che è un suo esame di coscienza, dal quale trae la conclusione che lei è in piena ragione e che io ultimamente sono diventato irascibile ed insopportabile, che sono sempre nervoso e che basta un niente per farmi perdere la pazienza.
Mica che abbia scritto anche solo una riga sul fatto che forse, magari, anche solo un pochino di colpa potrebbe averla anche lei! No la signorina Perfetta ha sentenziato: colpa mia! Ma non me ne frega un cazzo, che faccia un po’ quello che le pare, che si faccia dare da un altro almeno la smette di tritare i coglioni a me.
O perlomeno questo è quello che tento di farmi credere, quello che è più conveniente pensare, almeno così non fa male, non c’è il rischio di dover fare discorsi chilometrici che si rivelerebbero inutili e stancanti. Prima o poi le passerà!
Mi cambio e m’infilo in letto aspettando di addormentarmi. Il sonno tarda ad arrivare, ma al suo posto ci sono milioni e milioni di pensieri...
Salute, amore, bellezza, lavoro, affari, tutti parlano, tutti sentenziano, tutti vogliono… corrono ma alla fine chi veramente avrà capito qualcosa? Boh?! Forse tutti,  forse nessuno, o forse  semplicemente  chiunque abbia una passione, un desiderio, chiunque riesce a guardare  un po’ più in la . Il mondo si sta scordando la semplicità, si sta dimenticando cosa voglia dire vivere! Oggi tutti pensano al lavoro, alla famiglia, alla casa, alla macchina, ma nessuno pensa mai a vivere. E gli istinti? Dove sono finite le voglie le utopie ed i sogni tutti? Beh!  Forse quelle vengono raccolte in un altro pianeta dove ancora c’è spazio per loro. I desideri in questo mondo non hanno più peso, il dolce sognare ha lasciato posto ad un pensiero materialistico e senza fantasia. Tutti pensano e ragionano, tutti rincorrono un improbabile futuro ed un insoddisfacente presente, dove l’unica utopia e’ la terrena banalità quotidiana. La poesia e l’arte sono diventate territorio di pazzi e falliti, l’unica espressione consentita e’ quella che parla di lucro. Ma perché la gente non si ferma un attimo e prova a pensare, prova a ragionare con la propria testa per rendersi conto che a questo mondo c’è ancora bisogno di vita! Perche’ non la smettono di correre per accapparrarsi una certezza, per aggrapparsi a qualcosa di solido dalla quale trarranno solo nervoso e stress.
FERMATEVI!
Fermatevi un attimo ed in silenzio apprezzate la semplicità della parte folle ed irrazionale della vostra mente. Fermatevi e capite che non tutto e’ fattibile razionalmente. Provate almeno una volta ad uscire dagli schemi per entrare in un mondo fantastico ove non ci sono regole. Un posto dove tutto e’ lecito, dove non c’è metrica di linguaggio, dove non c’è obbligo di lavoro, dove non si trova tutto in scaffali e perfettamente ordinato, dove il dotto ha ancora molto da apprendere e dove l’ipocrisia non regna. Un luogo dove sognare e’ una virtù !!!! Uscite dagli schemi quotidiani per immergervi in un dolce cullarvi di curve e suoni, ed il più improbabile dei vostri sogni diverrà realtà.
Non ci sarà il male dal quale dovrete riguardarvi, anche se affascinanti non ci saranno tentazioni dalla quale dovrete fuggire, perché l’abbandono al delirio della mente sarà cosa banale, e soprattutto non ci sarà il bene a dettar legge o un esempio da seguire. L’unica legge sarà dettata da voi stessi e dal vostro incondizionabile io!
Ma voi non potete capire, voi che in questo momento starete correggendo i miei errori ortografici, voi che starete pensando che domani vi dovete alzare presto ed e’ quasi giunta l’ora di andare a letto. Voi che non avete accanto un bottiglione di vino ed un pacchetto di sigarette vuoto, voi palestrati quasi perfetti che non vi siete mai concessi il dubbio dell’errore. Voi dal telefonino squillante e la moglie tutto culo e tette perfetti ma niente anima… solo corpo e possibilmente da fottere. Voi che avete un bel lavoro, giacca, cravatta e Rolex, voi che vi fate i regali  sorridendo e diventate più buoni a Natale, voi che sorridete al capo che vi abbassa lo stipendio e aumenta il lavoro. Voi che non volete capire che l’implicito dentro al semplice ci può stare, voi che cercate in terra perché in aria non ci sapete andare, tenetevi i soldi ma lasciatemi volare!
Sì Morfeo, mi sono sfogato adesso sono pronto.





 
SESTO LIVELLO



Ore nove.
Sento lontano un tic, quello dello stereo che si sta per accendere. “Come vibrando una molla mi vien la tremarella ballando...”  I Persiana Jones attaccano, e con loro anche una nuova giornata. La voglia di non andare al lavoro dettata dal sonno è tanta, ma dopotutto Luigi (così si chiama il protagonista del mio gioco) mi sta aspettando, ha bisogno di me per riuscire a terminare la sua impresa e raggiungere il paradiso della tranquillità e la pace del proprio ego. Non manca molto alla presentazione del gioco, al lancio ufficiale, ed io ho ancora molto lavoro da fare. Credo nel mio gioco e credo nella sua riuscita. “The black ship” non può fallire, va a stimolare il sogno remoto di libertà che ognuno di noi reprime dentro sé stesso. Luigi è nato per dare ai giocatori, anche se solo per poche ore, l’illusione di aver staccato, di essere riusciti ad andare oltre. Oltre la monotonia dei gesti quotidiani, oltre le piccole e snervanti liti familiari sempre per gli stessi argomenti, sulle stesse piccole incomprensioni. Luigi nasce per portarti dove la tua fantasia è gi arrivata da tempo, ma il tuo corpo, la tua razionalità e la tua influenzata coscienza non ti lasciano andare. Luigi è lo sfogo di ogni persona normale che fa un lavoro normale, che ha una moglie normale, che vive in una casa normale, in una città normale e che ha un conto in banca normale. La normalità è la malattia del duemila, e può essere calmata o portata allo stremo solo da uno strumento che ha contribuito a generarla. Luigi è per le persone normali come la morfina. “The black ship” ti da quella boccata d’illusione ossigenatrice che non si può rifiutare, che ti allevia il dolore. E’ la tua personale flebo rivitalizzante!
La mia giornata al lavoro scorre più o meno lenta, come al solito. Oggi Miriam non si è fatta sentire, il telefonino non ha squillato all’ alba delle pausa pranzo, ed  io di certo non mi sogno neanche di chiamarla. Dopo quello che mi ha scritto in quella lettera anche se sapessi di avere una piccola percentuale di colpa, non la chiamerei. Deve capire che le rinunce siamo in due a farle, per una vita in due. Finita la pausa pranzo il principale convoca me ed i programmatori che mi seguono nel mio gioco per una riunione straordinaria per fare il punto della situazione; o come lo chiama lui… breefing multidirezionale. Apre la riunione nel più sbagliato dei modi:
“Ragazzi di merda da inghiottire ce n’è ancora tanta, non credete che nonostante Vladimiro abbia avuto una buona idea ed i programmatori stiano facendo un buon lavoro si possa credere di essere ad un buon punto. L’azienda deve ancora crescere e con lei il suo fatturato.” Dopo un esordio simile non ho potuto far altro che alzarmi e dirigermi verso la porta d’ uscita.
“Vladi ma dove cazzo vai?!”
“Dopo il discorso che ha appena fatto non posso fare altro che andarmene. Non ho intenzione di starmene qua a sentire lei che mi viene a dire che devo rompermi il culo per farla guadagnare come un porco, mentre a me mi da uno stipendio da fame.”
“Signor Vladimiro non ti permetto di rivolgerti a me in questo modo. Se non fosse per me tu non solo non saresti un grafico, ma ancora meno avresti potuto far uscire un game firmato da te!”
“Innanzitutto si dice gioco, non game, siamo in Italia; e poi di certo non mi sento di doverle della gratitudine, per cosa poi?! Per avermi permesso di lavorare qui per tutti questi anni sottopagato, o per non avermi mai messo in regola, o forse per non avermi mai pagato gli straordinari, le assenze per malattia o gli infortuni? Per quale di queste cose dovrei esserle grato? No, mi dispiace non credo di doverle ne gratitudine ne tantomeno stima. E con questo per me la riunione è finita, del resto non c’è mai stato niente da dirsi, il gioco le posso garantire che sarà pronto e testato per la data stabilita. Se mi cercate sono nel mio ufficio!!!!!!!”
“Vladimiro ringrazia solo che ho ancora bisogno di te, perché se così non fosse saresti già in mezzo ad una strada”
Me ne torno nel mio ufficio e senza rispondere alle domande delle mie colleghe su cosa è successo, mi rimetto a lavorare. Ormai sono alle fasi finali del gioco, tra quindici giorni c’è la presentazione ufficiale a Milano. Un gran giorno quello della presentazione, ci sarà la stampa, i più grandi critici di videogiochi, tutti i manager rampanti con pancetta ed orologio sul polsino, le loro mogli ingioiellate da paura con dei vestitini da qualche milione che useranno solo per quella sera. Una sola nota positiva: il buffet.
Tutti si aspettano che per quella sera io mi metta in gran tiro, giacca cravatta, tutto leccato per bene; ma non sanno che mi presenterò con il mio fedelissimo camicione ed i miei jeans sbiaditi ed usurati dagli anni. Non vedo l’ora!
La giornata in ufficio fortunatamente finisce presto e presto me ne torno a casa senza essere salutato nè da quell’idiota panciuto del mio principale, nè tantomeno da quei leccaculo dei programmatori, che mi guardano schifati quasi fossi un lebbroso. Brutta affermazione questa, bisognerebbe aprire un’organizzazione in merito a favore dei lebbrosi. Il viaggio di ritorno, che di solito mi consola, si rivela uno schifo facendomi rimanere bloccato in autostrada per quasi due ore a causa del cappottamento di un camion. Appena arrivato a casa ho l’ennesima brutta notizia: trovo sul tavolo la copia delle chiavi di casa che usava Miriam con un biglietto quantomeno esplicito:
“Grazie ed arrivederci”.
Non ci credo, non posso credere che abbia deciso di mandare in fumo una storia di tre anni solo per quello stupido litigio. Beh! Forse di litigi ultimamente ce n’è stato qualcuno di troppo è vero, ma sicuramente niente di così drastico, niente che non potesse essere risolto o chiarito. See, parlo di chiarimenti, io che non ho voluto neanche chiamarla per provarci a chiarire. E’ vero, era lei che avrebbe dovuto farlo, ma forse io avrei anche potuto mettere da parte quel fottuto orgoglio e salvare quell’unica cosa a cui forse tenevo ancora tanto, troppo per perderla così su due piedi, senza preavviso. Stappo una bottiglia di Mezcal, le do fondo e vado a letto.
La mattina seguente non sento neanche lo stereo e mi alzo con più di un’ora di ritardo ed ancora ubriaco dalla sera precedente. Un pensiero in testa ben presente. NON HO PIU’ MIRIAM!
Mi fiondo al lavoro nel quale mi immergo per l’intera giornata. Luigi in un modo o nell’ altro è riuscito a tenere lontano il pensiero di Mi’ per quasi una decina d’ore! Finisco di lavorare molto tardi, circa le otto e quaranta, così decido di fermarmi a mangiare fuori. Prendo il telefono, compongo il numero e la chiamo. Solo quando sento la sua voce rispondermi riesco a rendermi conto che lei non fa più parte della mia vita, non ci sarà più al mio fianco a cena o nel letto o in qualunque altro momento della giornata. Interrompo la chiamata e scoppio in lacrime come un bambino piccolo. Vado a cena in un locale nuovo, dove nessuno mi conosce e nessuno può chiedermi come va. Ordino qualcosa a caso del menù che mangio senza neanche rendermene conto e senza neanche accorgermi di che sapore ha, bevo un paio di caraffe di vino, pago il conto ed esco velocemente. Prendo la macchina faticando per uscire dal posteggio, sono di nuovo ubriaco, e mi dirigo verso il “bosco degli Ulivi” dove io e lei abbiamo passato molto tempo insieme. No, non posso martoriarmi così, devo trovare una variante, qualcosa che mi distragga, che non mi ci faccia pensare.
Faccio un giro per la riviera e mi ritrovo in un Pub dell’entroterra savonese:” La Taverna degli Indiani” o un nome simile. Faccio subito amicizia con il barista, un tipo molto giovane, simpatico, decisamente ci sa fare.
Un giro lo pago io, un giro lo offre lui ed è partita quasi una bottiglia di Mezcal. Quando bevi in compagnia di persone così simpatiche il tempo ti vola, e ridendo e scherzando si sono fatte quasi le quattro e venti. Grazie ad Alessandro, il barista, e al Mezcal sono riuscito a non pensare a Miriam. La strada del ritorno è molto più lunga del previsto, anche per colpa di qualche sosta di troppo per vomitare anche l’anima. Verso le sei sono a casa e mi addormento senza pensare a lei, forse sono troppo ubriaco per farlo. Tre ore dopo lo stereo si accende e a me sembra che invece dei Persiana Jones stiano suonando le campane dell’inferno.
Un mal di testa atroce, un pastone in bocca da far paura ed un rincoglionimento tale da far fatica a trovare la strada del bagno. La giornata al lavoro scorre esageratamente lenta, fra mal di testa, sigarette e le facce schifate dei miei colleghi che mi guardano come se mi fossi appena fatto un buco. E’ inutile provare a spiegargli il mio stato d’animo, sono troppo razionali e puliti per capire come una situazione del genere possa, a volte, farti stare meno male di quanto il tuo fisico si senta. Verso le quattro e quaranta, quando la mia giornata lavorativa è ormai finita, la mia collega mi passa una telefonata.
“Chi è?”
“Non so, è una voce femminile”
Che sia Miriam? No impossibile, lei sicuramente non si abbasserebbe mai a chiamarmi, in ufficio poi...
“Pronto?”
“Vladi?”
“Sì sono io, con chi parlo?”
“Ciao Vla, sono Alessia, senti ti dovrei parlare un minuto in privato, quando posso beccarti da solo?”
“Ciao Ale, quando vuoi, anche questa sera se per te va bene”
“Ok fai un passo da me dopo cena?”
“Ok verrò per le nove, nove e venti”
“Ti aspetto”
La mia vicina mi vuol parlare, che sappia di me e Mi’ e voglia approfittare della situazione? Beh! Ammesso che ci riuscirebbe non è comunque nel suo stile, e poi a casa sua... ci sono anche i suoi. No non credo proprio.
Nel frattempo arrivano le cinque e con loro l’ora di andarsene a casa. Prima però faccio un salto a salutare i vecchi amici che non vedo da un sacco. Arrivo di fronte al Bar dove di solito loro si ritrovano, posteggio e li vedo lì, seduti al solito tavolino con la solita birra nel bicchiere e la solita sigaretta in mano. Non sono cambiati, sempre le stesse schiene dritte, che di lavorare non se ne parla proprio.
“Ueilà, chi non muore si risente!”
“Ciao Vladi, finalmente ti fai vivo! come te la passi”
“Così, si tira avanti”
“Beh! Visto con che macchinino ti presenti si direbbe che ti vada bene”
“Va e basta”
“E allora sto giro di aperitivi ti tocca”
E tra un Campari corretto Gin ed un Bitter corretto Vodka, le solite frasi.....
Come stai? Stai sempre con quella tipa? Che fai nella vita? Ma si guadagna? A donne come va? Sei già stato in quel locale nuovo che hanno aperto in centro?
E fra falsa gioia di rivedersi e risate ipocrite la serata e’ passata. In compagnia di persone che di rivedermi non gli fregava nulla, ma che con due sorrisi falsi e qualche rimembranza di tempi passati si sono guadagnati qualche bicchiere a scrocco.
Prima di andare a casa passo dal Take & Way cinese a comprarmi un qualcosa che possa avere una parvenza di cena e me la filo a casa. Le nove si avvicinano e la mia curiosità aumenta. A dire il vero più che curiosità forse è speranza. Speranza che Alessia ci provi ancora una volta, speranza che le mie continue negazioni non le abbiano fatto troppo cambiare idea sul mio conto, speranza che questa volta possa farmi quella trombata che da troppo tempo è stata soffocata da una correttezza che come al solito, puntualmente, si rivela inutile e sprecata. Speranza di poter fare una piccola pazzia, una pazzia che non ti dimentichi facilmente. Una pazzia centodiecisessantanovanta. Casa, doccia, cena e via di corsa a citofonare a Miri... Alessia. Era da un sacco di tempo che non mi sentivo così, ansioso ed eccitato come un quattordicenne la prima volta che slaccia i jeans alla sua ragazza senza prendersi un ceffone; e lo ammetto anche un pochino impaurito.
Suono il campanello di casa sua con la mano quasi tremante. Apre lei la porta, jeans elasticizzati color nero, maglia attillata bordeau, camicione nero aperto sopra la maglia, capelli legati con la coda alta e due treccioline di capelli sciolti che scendono dalla fronte lungo il viso quasi a delinearne i bellissimi lineamenti, poco trucco per non rovinare quello spettacolo naturale dei suoi occhi. Semplicemente perfetta!!!!!
“Ciao Vladi entra!”
“Ciao Ale come va?”
“Tutto ok, vieni di la in salotto che ci sediamo un minuto, Miriam l’hai lasciata a casa?”
“No, non proprio, poi ti spiego.”
“Ma uscite ancora assieme vero?”
“Perchè me lo chiedi?”
“Cosa bevi Vla?”
“Quello che ti capita per le mani, meglio se ti ci capitasse del Mezcal, ma perché mi hai fatto quella domanda?”
“Mi spiace non ne ho Mezcal”
“Whisky va benissimo lo stesso grazie, Ale... rispondimi, perché quella domanda?!”
“Così semplicemente per curiosità, siccome di solito siete sempre assieme ed oggi non l’ho vista con te”
“Ok, facciamo finta di crederci, mi avevi accennato che mi dovevi parlare”
“No dai Vla, siamo grandicelli tutti e due ormai, è inutile che ce la stiamo a raccontare, ti volevo parlare di Miriam; ci esci ancora o no? “
“NO! Perché?”
“Sai l’ho vista ieri con un tipo”
“Chi?!”
“Non so chi, uno grosso, pieno di piercing  e tatuaggi, un caccaro da paura, il classico faccia da schiaffi. Mi sarebbe scazzato che ti facesse becco così spudoratamente, se non te lo avessi detto non me lo sarei perdonato”
“Beh! Grazie dell’amicizia e dell’informazione ma purtroppo non usciamo più assieme, può anche vedersi con un altro. Anche se a dire il vero mi viene il dubbio che allora si ci vedesse anche prima”
“Non lo so Vladi, questo proprio non te lo so dire, se vuoi posso vedere di informarmi”
“No grazie lascia perdere, se scoprissi qualcosa non lo reggerei”
“Senti Vladi,” e mi da la mano “Io e te siamo amici, non vorrei sembrarti una che se ne esce con frasi fatte o di cortesia, però capisco che per te non sia un buon momento, se ti serve qualcuno con cui parlare, un favore, qualunque cosa... sono qua”
Mi volto e ci fissiamo dritti negli occhi per qualche eterno secondo. Bacio! E dopo il bacio lei mi fissa ancora, con quegli occhioni contenti, allegri, euforici, di una bambina che finalmente ha ricevuto la sua prima bambola. E con un espressione tanto dolce quanto intrigante mi dice:
“E’ di questo che hai bisogno adesso?”
“Non lo so, ora come ora ho bisogno di qualcuno che mi dica che esisto, che anche io sono a questo mondo e che ci sono anche per lui”
E poi un altro bacio e poi un altro ed un altro ancora...
Continua a guardarmi con un aria terribilmente dolce e maledettamente  consapevole che per questa sera è libera di  fare qualunque cosa senza che io mi dilegui scazzato. E quell’aria quasi ingenua continua ad averla anche mentre le tolgo la maglia e si accorge di come sbigottito fisso il suo corpo così perfetto, così bello e liscio da sembrare disegnato.
Nel corso della serata ho piacevolmente scoperto che Alessia è tanto bella quanto passionale e sopratutto che i suoi non erano in casa. Mi ritrovo ad andarmene dopo esserci salutati con atteggiamenti, gesti e sguardi da due pivelli innamorati. Dentro di me ho un brutto rancore nei confronti di Miriam mischiato ad una grande euforia per aver conosciuto un’Alessia capace di così tanto.
Arrivato a casa mi infilo direttamente in letto ed incomincio a riflettere. Devo chiarirmi le idee, ma non ci riesco, il tempo passa e non riesco a capire se questa sera ho fatto l’amore con Miriam o con Alessia. E’ ancora troppo presto perché il buco si possa colmare, non vorrei che Ale fosse per me un nuovo chiodo per schiacciarne uno vecchio. Questa sera ho scoperto che non se lo meriterebbe. Alessia è talmente dolce, talmente da vivere che riesce ad appannarmi la vista. Alessia Miriam, Miriam Alessia, chi lo sà. Solo una cosa è certa domani inizia la fase collaudo di “The Black Ship” ed io dovrei avere la mente sgombra da tutto il resto.
La mattinata comincia abbastanza bene con il principale decisamente euforico ed il morale dell’intero ufficio abbastanza alto. Io, i programmatori, i grafici che mi hanno aiutato, e quasi tutto l’intero ufficio passiamo la giornata a giocare con Luigi, cercando anche il più piccolo difetto, la minima imprecisione e tutto quello che possa non dare a “Tha black Ship” il successo meritato. La giornata di collaudo si conclude bene, il gioco è pronto, fra pochi giorni l’inaugurazione a Milano. Torno a casa finalmente contento, quasi impaziente di rivedere Alessia, e soddisfatto del tempo perso e dei sacrifici che il mio gioco mi ha imposto. Appena uscito dal casello autostradale di Genova Pegli mi imbatto nel solito traffico quotidiano, che stranamente non riesce ad innervosirmi come di solito succede. Impiego la mia solita mezz’oretta per percorrere si e no tre chilometri e finalmente arrivo sotto casa. Infilo la macchina nel box e salgo in casa molto alla svelta, doccia veloce e rigorosamente sigaretta da relax con un sottofondo del buon vecchio Liga. Sto quasi un’ora sdraiato sul letto, non so nemmeno io perché, mi va di pensare. Penso a cose brutte, tristi e malinconiche tentando di convincermi che appartengano solo al passato e penso a cose calde, allegre e materialmente molto belle sperando di convincermi che siano meglio del passato. Il trillo del campanello di casa interrompe le mie riflessioni. E’ Alessia: “ Ciao bello com’è?”
“Bene, una giornata complessivamente positiva, Tu?”
“Abbastanza bene”
“Perché abbastanza?”
“Oggi mi ha telefonato l’agenzia dicendomi che mi salta una sfilata per un importante stilista. Ci avrei potuto tirare su un bel po’ di soldi”
“Perché è saltata?”
“Problemi interni, non si sono accordati fra di loro; senti un po’ che fai adesso?”
“Niente di particolare perché?”
“Ti va di mangiare fuori?”
“Volentieri, dove?”
“Non so. Hai qualche idea?”
“Conosci l’Illusion?”
“Me ne hanno parlato, mi vado a preparare”
“Ti aspetto”
“Mettiti pure comodo, mi ci vorrà un po’ “
“Non esagerare che ho una fame da lupi”
“Devo esagerare, è la prima volta che usciamo assieme, devo essere perfetta”
La dolcezza e la sincerità con cui ha detto queste parole mi hanno lasciato veramente di merda. Sono rimasto lì a fissarla con quel sorrisino da perfetto imbecille, allibito da come lei così bella e perfetta voglia e possa essere impeccabile solo per me. Non sono abituato a sentirmi importante. Riaccendo lo stereo: “Tempo di cambiare” dei Kina, mi preparo anche io, anche se di solito non mi preparo mai più di tanto. Il mio concetto di “vestirsi bene” è molto particolare: anfibi 16 buchi con rigorosi lacci rossi, salopette marroncino chiaro in velluto a coste francesi con tasconi e bretelle rovesciate in vita, maglia di pail marrone scuro con cappuccio enorme, giacca a camicione in velluto nero e capellino di lana nera legato in punta. Barba fatta, pizzo escluso e scorta di sigarette. Eccomi, ora sono pronto. Passano ancora quasi quaranta minuti quando lei citofona. Scendo le scale molto velocemente, un po’ per la curiosità di vederla ed un po’ per la fame che la fà da padrona. Lei è lì, davanti a me, appoggiata sul portone; esageratamente, infinitamente, meravigliosamente bella!
Vestito corto, molto corto, di lana grigia, calze a strisce nere sottili e grigie spesse, capotto lungo nero slacciato, capelli legati con la coda alta e due ciuffi che scendono in viso, anfibi alti ma allacciati solo fino all’ottavo buco con padella rovesciata, sciarpa multicolori scura che si posa sulle spalle e sul seno accentuandone le prorompenti forme ed un pizzico, poco, di trucco. Praticamente la Aidi dei sogni erotici di ogni ventiduenne che si rispetti.
“Allora Vladi, andiamo che ho fame! “
“Dillo a me, stavo fissando quei poveri passerotti sugli alberi di fronte al mio poggiolo con aria cannibalesca.”
“Non sarà stato meglio prenotare? “
“No, fidati in settimana non è il caso”
Saliamo in macchina, e dopo poche centinaia di metri mi accorgo che l’anatomicità dei sedili tende a farle intravedere la fine delle calze, autoreggenti.
Piccola erezione.
“Vladi non sono mai stata su una macchina sportiva come questa, va forte?  “
“Un po’, ma se hai paura basta che me lo dici, io sono di quelli che vanno pianissimo se hanno al fianco qualcuno che ha paura”
“No, no, vai come ti pare. Certo che ‘sti sedili saranno anche da gara ma sono scomodi da panico”
“Non sono scomodi, sono sportivi! “
“Sì, ma mi fanno vibrare il sedere”
“C’è chi paga per i massaggi rassodanti e tu li hai gratis.”
“Spero di non averne bisogno, non ancora perlomeno.”
“No, forse no! “  Figura di merda.
Accendo la radio lasciando il cd che già era inserito: “Parnassius” di Guccini. Dopo poco, a metà di: “Nostra Signora dell’Ipocrisia” mi accorgo che lei sta canticchiando sottovoce.
“Ti piace Guccini? “
“Lo adoro, è un genio! “
“Ma va! Grande! Anche io adoro Guccini, pensa che avrei dovuto andare al concerto ma da solo mi scazzava, ho già i bilglietti, vieni!? “
“Al mio posto avrebbe dovuto esserci Miriam vero? “
“A dire il vero i biglietti me li ha regalati lei... è un peccato buttarli, però se ti scazza fa niente”
“A te scazza che ci sia io al suo posto? “
“Vuoi la verità?! Lei odia Guccini! Sarebbe stata una palla al piede
“Alessia scoppia ridere.
“Ok ci vengo”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
SETTIMO LIVELLO



Nel frattempo siamo arrivati davanti all’Illusion. Di fronte a noi la città illuminata e vista dall’alto impone quell’atmosfera molto intrigante che è quasi d’obbligo in serate come questa. Entriamo all’interno del locale dove l’unica luce forte è data dal bagliore della città riflesso nel cielo. Il cameriere, un tipo dall’aria poco sveglia, ci assegna un tavolo vicino alla vetrata; lo stesso dove mi ero seduto l’ultima volta che sono stato qui, che sfiga!
La cena comunque promette bene, il suo buon umore e l’allegria che riesce ad importi scacciano la malinconia che quel tavolo mi aveva dato. Lei è una tipa molto strana, nonostante sia una gran strafiga riesce sempre a metterti a tuo agio, ha un’aria così infantile, sembra una bella bambina cresciuta che deve ancora rendersi conto di dove può portarla il suo fisico; però quando deve, sa essere una vera professionista, una con le palle, una che se vuole ti imbarca e ti fa girare sopra la punta del dito come e quando le pare. Alessia è la classica ragazza con la quale si può parlare di qualsiasi cosa, non la imbarazza nessun argomento, è sempre così sincera e così spontanea che riuscirebbe a palare con un sordo senza metterlo in imbarazzo. La cena con una persona così, inutile dirlo, è scivolata via sottraendo del tempo alle nostre conversazioni. Quando usciamo dal locale senza neanche porci il solito problema di dove andare, saliamo in macchina e lasciando scegliere a lei dove portarci. In macchina le conversazioni continuano e parla che ti riparla ci troviamo sulla spiaggetta di Bogliasco. E’ una spiaggetta sulla quale si può arrivare con la macchina, e facendo un po’ di attenzione a non impantanarsi  si riesce ad attraversarla e raggiungere il piccolo molo, posteggiando così a pelo dell’acqua con la precisa sensazione di trovarsi in mezzo al mare.
“Non lo conoscevo questo posto, ci venivi spesso con lei?”
“No, Miriam non avrebbe mai apprezzato un luogo così, per lei il dialogo ed il romanticismo non esistono, non è mai stata capace di formulare una frase dolce o di farmi qualche carezza. Se l’avessi mai portata in un posto come questo, dopo pochi minuti trascorsi in assoluto silenzio mi avrebbe detto che si annoia, di andare da un’altra parte. Che so, magari a casa a vedere la televisione. “
“O tu non sei quello che mi sei sempre sembrato oppure non capisco coma hai potuto resistere così a lungo con una persona così diversa.”
“No, semplicemente frequentare una persona così opposta a sè stessi spesso aiuta. Io ho un carattere molto strano, se non avessi un qualche aggancio con la realtà mi perderei nei miei sogni e nella mi fantasie; annebbierei la visione del reale distorcendola con dell’euforia non giustificata. Miriam era per me lo specchio del normale, le realtà di tutti i giorni, la banalità che si propone a ricordarmi che non si può vivere la vita come si scrive quella di un gioco. “
“E’ triste Vladi! Non puoi vedere le cose solo sotto un aspetto così distorto. Nella vita non esiste solo il vero o la fantasia; le due cose si possono anche mescolare. Bisogna riuscire a sfruttare la parte cinica e materiale della propria vita per costruirsi le possibilità e le condizioni per poter trasformare i sogni in realtà.”
Mi guarda con quei suoi occhioni, e sembra capire che il discorso stava andando troppo sul filosofico rischiando di rovinare quella che era e doveva restare un’allegra serata. Si sposta verso di me raggiungendo con la mano la leva che abbassa il sedile, mi sale sopra ed inizia a baciarmi mentre con l’altra meno passa sotto pail e salopette.
Ore sette e trentanove: il telefonino di Alessia non la smette più di squillare, ci svegliamo  ci rendiamo conto di essere ancora in macchina; è giorno, lei risponde al telefono cercando in qualche modo di placare le ire di suo padre. Ci vestiamo alla svelta; accompagno Alessia a casa e mi precipito a lavorare.

ERROR
Questo programma ha eseguito un operazione non eseguibile e verrà terminato
FLOP

Ma noooo, ma dai cazzo, non puoi essere così bastardo! Dio come odio questi computer di merda, che s’inchiodano sempre. Oltretutto l’ultimo salvattaggio l’evevo fatto appena arrivati sul molo; cazzo. Ora mi tocca rifarmi tutto quel pezzo!








demo
inizia nuova partita
pausa
riprendi partita
salva
carica salvataggio
esci


“Non lo conoscevo questo posto, ci venivi spesso con lei?”
“No, Miriam non avrebbe mai apprezzato un luogo così, per lei il dialogo ed il romanticismo non esistono, non è mai stata capace di formulare una frase dolce o di farmi qualche carezza. Se l’avessi mai portata in un posto come questo, dopo pochi minuti trascorsi in assoluto silenzio mi avrebbe detto che si annoia, di andare da un’altra parte. Che so, magari a casa a vedere la televisione. “
“O tu non sei quello che mi sei sempre sembrato oppure non capisco coma hai potuto resistere così a lungo con una persona così diversa.”
“No, semplicemente frequentare una persona così opposta a sè stessi spesso aiuta. Io ho un carattere molto strano, se non avessi un qualche aggancio con la realtà mi perderei nei miei sogni e nella mi fantasie; annebbierei la visione del reale distorcendola con dell’euforia non giustificata. Miriam era per me lo specchio del normale, le realtà di tutti i giorni, la banalità che si propone a ricordarmi che non si può vivere la vita come si scrive quella di un gioco. “
“E’ triste Vladi! Non puoi vedere le cose solo sotto un aspetto così distorto. Nella vita non esiste solo il vero o la fantasia; le due cose si possono anche mescolare. Bisogna riuscire a sfruttare la parte cinica e materiale della propria vita per costruirsi le possibilità e le condizioni per poter trasformare i sogni in realtà.”
Mi guarda con quei suoi occhioni, e sembra capire che il discorso stava andando troppo sul filosofico rischiando di rovinare quella che era e doveva restare un’allegra serata. Si sposta verso di me raggiungendo con la mano la leva che abbassa il sedile, mi sale sopra ed inizia a baciarmi mentre con l’altra meno passa sotto pail e salopette.
Ore sette e trentanove: il telefonino di Alessia non la smette più di squillare, ci svegliamo  ci rendiamo conto di essere ancora in macchina; è giorno, lei risponde al telefono cercando in qualche modo di placare le ire di suo padre. Ci vestiamo alla svelta, accompagno Alessia a casa e mi precipito a lavorare.
La giornata in ufficio, come si può facilmente intuire, non è delle migliori; il sonno attanaglia il mio cervello impedendogli di lavorare come si deve, il principale continua pesantemente a tenermi il fiato sul collo perché ha deciso che il mio gioco deve a tutti i costi fargli ingrassare il portafoglio, e la mia collega continua a tritarmi i testicoli perché non vuole che fumi in ufficio. Mezzogiorno e mezzo si avvicina e con lui anche la mia pausa pranzo. Finalmente si mangia! Prima però decido di telefonare ad Alessia per vedere cosa ha detto suo padre e scopro che è riuscita a cavarsela con una banale scusa.  Inserisco in un pc il cd di “The black Ship” e ci gioco un po’. Sarà anche una deformazione professionale ma io non riesco a trovarci difetti, neanche ad essere pignolo; credo proprio che siamo pronti per il grande lancio. Termino la mia giornata lavorativa, mi metto in tasca uno dei cd prova del gioco ed esco. Telefono ad Alessia mentre sono in autostrada chiedendole che intenzioni aveva per la serata. Mi dice che e’ parecchio stanca perché oggi pomeriggio ha avuto una giornata piuttosto pesante, palestra, piscina e corsa; preferirebbe stare in casa. Le dico che se per lei va bene io dovrei far provare il gioco al mio collaudatore ufficiale.
“Chi sarebbe il tuo collaudatore ufficiale Vladi? “
“Hai presente Matteo, il figlio della nostra vicina dell’ultimo piano?“
“Ma ha poco più di sei anni !“
“Ne ha nove per l’esattezza, e poi chi meglio di un bambino che passa l’esistenza davanti al computer potrebbe trovarmi i difetti del gioco?“
“Se la metti su questo piano, ma viene a casa tua?“
“ Sì, lo devo ancora avvisare ma sono sicuro che non mi dirà di no, poi non ci vuole molto, ho intenzione di fargli giocare solo un piccolo pezzettino, anche perchè a fare tutto il gioco senza trucchi e senza suggerimenti ci vuole qualche mesetto. Mi basta che finisca il primo livello; se si diverte con il primo livello vuol dire che il gioco può funzionare, se si annoia significa che io sono licenziato.”
“ Ottima prospettiva, ci vediamo per le nove e mezza?“
“ Fai anche otto e mezza, è un bambino non posso mandarlo a casa a mezzanotte, sua madre mi ucciderebbe.“
“Ok, appena finito di cenare salgo da te.“
“Ci vediamo dopo allora! “
Metto giù il telefono e chiamo Matteo che come previsto, dopo aver supplicato la madre, ottiene il permesso di venire da me a provare il gioco.
Ore otto  e trenta, Matteo puntualissimo suona alla mia porta di casa, lo faccio sedere davanti al computer e gli spiego brevemente di cosa si tratta. Mi accorgo facilmente che non mi sta ascoltando, è troppo impaziente. Suonano nuovamente alla porta, è Alessia.
Ale non fa tempo a superare la soglia di casa che Matteo: “Ma voi due siete fidanzati? “
Ale: “Beh sì, qualcosa del genere”
Matteo: “Qualcosa del genere significa che fate l’amore assieme ma che non vi volete sposare giusto? “
Ale, diventata rossa come un peperone “ Ma tu non sei un po’ troppo piccolo per sapere certe cose? “
Matteo: “No anzi, c’è Marta, una mia compagna di scuola, che in cambio di un pezzo della mia merenda mi fa vedere la sua patatina”
Ale: “Ma la mamma queste cose le sa? “
Matteo: “No sei matta, non glielo dire che poi si arrabbia”
Sarà meglio che cambio discorso:
“ Allora Mate, vuoi parlare o giocare?”
“Giocare, giocare”
Abbasso le luci introduco il cd.
L’animazione iniziale del gioco lo lascia a dir poco perplesso e stupito, nelle prime fasi della partita devo spiegargli come si usano i comandi principali e quali sono gli scopi del gioco. Una volta date queste piccole istruzioni, Matteo prende il pieno possesso della situazione ed incomincia ad abissarsi  nel ruolo di Luigi, senza mai staccare la testa dal monitor o pronunciar parola. Non saprei dire se questo è un bene o un male, ma una cosa è certa: lo coinvolge.
Noto con mio stupore che anche Alessia è piuttosto interessata e che freme quasi dalla voglia di fare una partita anche lei, del resto il “The Black Ship” l’ho pensato più per adulti che per bambini. E così mi ritrovo con due tester perfetti e con una simpatica ed economica serata. In poco tempo Alessia si intromette nelle decisioni del gioco e Matteo confabula con lei in modo molto complice; si sono dimenticati di me! Mi verso un bicchiere di Mezcal e mi siedo sul divano alle loro spalle cercando di non disturbarli, ma di osservare attentamente le loro scelte. La serata scivola via molto veloce come la bottiglia di Mezcal, ed in men che non si dica si sono fate le undici, io sono mezzo brillo e Matteo deve andare a casa. Mi alzo ed accendendo le luci mi accorgo che sono andati più avanti di quanto credessi, quei due hanno quasi finito il secondo livello. Arrabbiati per avergli acceso le luci mi fanno notare che sanno perfettamente che è giunta l’ora di smettere ma vogliono prima finire il secondo livello. Dopo un po’ di insistenza mi trovo costretto a staccargli l’alimentazione del p.c. Matteo arrabbiatissimo mi dice di tutto, ma Alessia si rende conto che per lui è troppo tardi e mi aiuta a convincerlo che è l’ora di andare a casa. Accompagno Matteo fino alla porta di casa e lo ringrazio, lui non manca di farmi notare che la prossima volta che mi serve un favore simile devo chiamarlo, altrimenti si offende. Mi congeda dicendomi che domani i suoi compagni di classe schiatteranno d’invidia. Appena rientrato in casa trovo Alessia appiccicata al computer che sta continuando a giocare, e stressa per sapere quanto manca per finire il secondo livello.
“Ale non ti ci impallare troppo con quel gioco che domani devo riportarlo in ufficio.”
“Stai scherzando vero?! Questo gioco non va da nessuna parte finché non l’ho finito”
“No Ale non posso, devo rimetterlo a posto prima che si accorgano che l’ho preso, se sapessero mai che faccio uscire dall’ufficio i giochi prima che siano registrati succederebbe un putiferio.”
“Ok, però prometti che appena puoi me lo riporti”
“Promesso, ora andiamo a nanna che siamo entrambi distrutti?”
OTTAVO LIVELLO



Mattina dopo, ore nove, Persiana Jones, denti faccia, vestiti e mi precipito a prendere il gioco dal pc. Non c’è, Ale se l’ è preso ieri sera! Fanculo ora che gli racconto in ufficio?!
La giornata di lavoro scorre tutto sommato velocemente, sono riuscito a nascondere la mancanza del cd e la collega non stressa neanche più di tanto per le sigarette. Alle cinque in punto mi proietto fuori dall’ ufficio salgo in macchina e chiamo Alessia. Non c’è, sua madre mi ha detto che è dovuta partire per un urgente impegno di lavoro e che si scusa ma non ha potuto neanche chiamarmi. Starà via alcuni giorni. CAZZO!! Domani c’è il concerto di Guccini, devo restituire il cd e cosa più importante non capisco come non abbia avuto neanche il tempo di telefonarmi.
Ok, non facciamone un problema, lei è una modella, possono capitare queste cose, anzi mi ci devo abituare. Ora però che faccio? Boh, farò un salto al bar a prendere un aperitivo, magari incontro Scianca e gli altri.
Come volevasi dimostrare, Scianca, Dado, Brobro, bronza e tutti gli altri sono lì seduti sulle sedie del bar, come il solito a fare un emerito cazzo. Come scendo incominciano con le solite battute:
“Dì un po’ Vla mi han detto che ti schiacci quella straficona della tua vicina, ma a letto vale quanto in passerella?”
“Sicuramente vale più di te e Dado al volante”
Dado: “Oh, ma che cazzo volete da me, è lui che se l’ è messa di tetto e sei tu che ti trombi la tipa, mollatemi”
Il Boss: “No Vla, davvero, ci esci sul serio con quella ?”
“Sì, ci esco e allora? E’ un problema se io mi schiaccio una che voi non avete mai osato neanche sognare nei vostri sogni erotici più perversi ?”
Scianca: “Sì, ora sta a vedere che lei ce l’ ha diversa dalle altre”
Il Boss: “Vla vieni un attimo con me che ti devo parlare”
Si fa versare un Negroni per lui ed un Mezcal per me e mi porta nella saletta al piano di sopra, dove non c’è quasi mai nessuno. In questo caso ci siamo solo noi ed una coppietta nel tavolino in fondo.
“Senti un po’ Vla, ma come ti trovi con Alessia, si chiama così giusto?”
“Bene, molto bene perchè ?”
“No così, ma sei già bello cotto ?”
“Scusa Boss, ma ti se rincoglionito guardando Marta Flavi oppure c’è qualcosa di strano, perché non ti è mai fregato meno di niente delle mie storie”
“No così per sapere, siamo amici no?! “
“Boss sputala tutta, dove vuoi arrivare ?”
“No, ecco vedi, volevo chiederti se per te ci sarebbero dei problemi se io e Miriam... ecco... hai capito no?”
Mi scappa un ghigno, un ghigno molto nervoso.
“Ti chiedo una sola cosa Boss, ma devi rispondermi sincero, come fossimo fratelli: tra te e Mi’, la mia Mi’, c’era qualcosa prima ancora che io e lei ci mollassimo?”
“Cha cazzo di domande fai Vladi, certo che no, mi conosci, sai bene che non farei mai un’infamata simile ad un amico.”
“Sicuro??”
“Al mille per mille”
“Ok, se è così: no, non ho niente in contrario.”
Mi abbraccia molto forte e mi dice: “Lo sapevo che avresti capito, sei un amico Vla, al posto tuo io me la sarei presa di brutto. Ok, ora che abbiamo chiarito mi sono tolto un peso”
“Figurati Boss, hai fatto bene a dirmelo così evitiamo schiaffi inutili.”
“Grande Vladi, vedo che ci capiamo.”
Il Boss, armadio a due ante, pieno di tatuaggi ed orecchini piercing, mi volta le spalle ed incomincia a scendere le scale visibilmente rilassato.
“Ehi boss”
“Dimmi Vla”
“Il clito, le piace da matti se ci giochi per ore”
“Ma vaffanculo Vladi!!!!!!”
Scendo al piano di sotto anche io e tento di mantenere un’ aria piuttosto serena, anche se la notizia che il Boss si è messo con Miriam in realtà mi ha abbastanza scosso. Mentre, seduto al tavolino con un paio di buoni amici, mi sorseggio il mio secondo Mezcal, do un’ occhiata in giro. Ma non mi limito solo a guardare quello che mi sta intorno, lo osservo, mi estraneo dal mondo per scrutarlo dall’ esterno, e ne traggo alcune osservazioni, qualche conclusione e molta tristezza. Il mondo negli ultimi dieci anni, da quando io ero un pivello, è cambiato parecchio, forse anche troppo; o forse sono io ad essere cambiato ed a trovarmi a guardarlo con un ottica diversa. Ma no, è proprio lui che si è modificato, sembra quasi che le persone che lo abitano abbiano tutte preso la stessa direzione, sembra che tutti si stiano omogeneizzando verso una solida apparenza senza carattere, senza anima ma solo corpo; sembra quasi che nessuno abbia più nulla da dire, che nessuno faccia più  esperienze nuove, senbra che nessuno coltivi più passioni. Tutti si sono standarizzati verso un unico target; lo si riscontra nelle cose piccole, di tutti i giorni. Una volta c’erano gli appassionati di una cosa o dell’altra e venivano prodotti articoli specifici in quella direzione. Oggi tutti vanno nella stessa direzione, oggi non abbiamo più l’ appassionato di auto o di moto che compra il modello sportivo e la  Domenica va a sfogarsi, oggi abbiamo tutti padri di famiglia o finti manager che comprano Fiat Multiple o schifezze simili. Una volta c’erano cantanti con le palle che scrivevano testi con le palle, avevamo roba tipo: “Cuore” di Lorenzo Cherubini o “Tamuria” del buon vecchio Piero, oggi abbiamo “E’ per te” una bella ninna nanna che farebbe addormentare chiunque, persino un bambino, o “Toroloco” che più che oioioioi non sa raccontare. La gente si sta adattando alle cose senza sale, ma io insipido non ci sono mai riuscito a mangiare.
Mi alzo di scatto, saluto gli amici con un ciao e me ne vado, lasciando lì le mie tristezze.
Rientro in casa cercando in un modo e nell’altro di sviare i miei pensieri su cose più allegre, ma la cosa risulta maledettamente difficile. Se penso ad Alessia provo un senso di paura misto rabbia, ansia ed anche un po’ di delusione, se provo a ricordarmi i bei periodi passati con Miriam mi viene il nervoso a pensarla insieme a quel lampadario tatuato, in più non ho molti bei ricordi recenti di lei, se non qualche nottata di sesso. Così scivolo nei pensieri malsani, quelli che mi fanno capolino ultimamente, mi viene voglia di andarmene, come ha avuto il coraggio di fare Luigi, mi viene da pensare che forse ci sono rimasto fin troppo in questa città, sempre con la stessa gente, lo stesso lavoro, gli stessi amici, gli stessi locali, la stessa solita monotonia di una banale giornata. Penso che esistono posti dove si può vivere costantemente sopra i 23 gradi, dove fai il bagno tutto l’anno e dove vivere, se ti sai accontentare di poco, risulta terribilmente facile. Ma poi mi rendo conto che Luigi è solo frutto di una mia immaginazione, che nella realtà sarebbe quasi impossibile compiere un gesto di quel tipo. Così lascio che i miei pensieri mi abbandonino lentamente, lasciandomi un vuoto senso di rammarico; verso che cosa poi?
Mi convinco a telefonare ad Alessia, forse lei per qualche motivo non può davvero chiamare, forse sta aspettando che lo faccia io, e come me si è chiesta che cosa sto aspettando. Prendo il telefono e compongo il numero del suo cellulare: “Omnitel il cliente desiderato non è al momento raggiungibile. Vi preghiamo di richiamare più tardi”
FANCULO!
M’innervosisce la vocina calma e gentile di quella tipa che in parole povere ti sta dicendo che il telefono quando serve non prende mai.
Metto su un po’ di musica, “Curru Curru Gagliò” dei 99 Posse e mi cucino qualcosa di buono. Nel frigo non c’è molto, mi devo accontentare di una frittata di patate e wurstell, che oltre a riempire parecchio lo stomaco mi piace anche molto. Proprio mentre mi sono appena seduto a tavola ed ho appena impugnato la forchetta squilla il telefono. Di solito in una circostanza del genere non mi sarei neanche alzato per rispondere, ma il dubbio che possa essere Ale mi fa alzare quasi di scatto, limitandomi ad imprecarmi addosso per non avere ancora comprato un cordless.
“Pronto?!” Nel momento stesso in cui rispondo mi accorgo che il tono della mia voce lascia trapelare e di molto la mia irritazione.
“Va Beh, se ti da così fastidio non ti chiamo più”
 E’ lei: vorrei risponderle che sono felicissimo di sentirla, che mi sta mancando troppo e che ero in pensiero per lei, ma raccolgo tutta la freddezza che possiedo e le rispondo da scocciato:
“Oh, buongiorno signorina Alessia, chi non muore si risente”
“E dai Vladi, non mi dirai mica che sei arrabbiato?”
“No, non sono arrabbiato, ma avresti potuto avvisarmi, perlomeno potevi mandarmi un messaggio sul cellulare.”
“No, il cellulare all’estero non funziona, e poi ho lasciato detto ai miei di avvisarti, non dirmi che non l’hanno fatto”
“Sì, tua mamma me l’ha detto, ma avrei preferito sentirlo da te, e poi che cazzo vuol dire che all’estero il telefono non prende, si può sapere dove sei???”
“Ascolta, non posso parlare molto: sono a Parigi, a cena con un importante stilista che mi vuole per una sua sfilata, però non posso fargli capire che ho il ragazzo altrimenti salta tutto, sai come sono fatti questi stilisti no??!”
“No, non lo so come sono fatti, e poi che significa salta tutto, forse intendevi dire “crede di non potermi portare a letto””, lui non può scoparti, tu sei impegnata e con me per giunta!”
“Ma dai Vladi non vorrai mica metterti a fare il geloso, è lavoro! Ascolta non ho più tempo, vienimi a prendere domani all’aeroporto alle sette  che andiamo diretti al concerto.”
“E tu pretendi che io sapendo che passi la notte con quello, domani venga a prenderti come  niente fosse? Scordatelo”
“Vladi non fare l’idiota che non ho più soldi e mi sta cadendo la linea, ne parliamo domani che” TU TU TU
CAZZO! E’ caduta la linea.
PANICO, come può lei farmi un discorso simile, lei che è così... così... puttana porco giuda, esco con una puttana d’alto borgo! Ecco cos’è, con quella faccettina dolce, tenera, con quegli occhioni, è una gran troya! Se va bene in diciannove anni ha ingoiato più cazzi di stilisti che ravioli! Zoccola!
Il panico, la rabbia e l’agitazione prendono il sopravvento, cerco di sedermi e rilassarmi, ma non ci riesco, cerco di calmarmi mangiando qualcosa, ma non c’è niente in questo momento che possa passarmi attraverso lo stomaco se non una buona bottiglia di Mezcal. Esco di casa ubriaco fradicio ed ancora più arrabbiato di prima, salgo in macchina e me ne vado... dove poi? con chi?
Rigorosamente da solo!
La macchina mi porta al Passo del Turchino; riesco a malapena a distinguere quale sia la mia corsia, vedo le luci dei lampioni disperdersi nella nebbia che non c’è, la strada per quanto perfettamente asciutta mi sembra una lastra di ghiaccio. Ma non conta, tutto questo adesso non conta, quello che conta è arrivare al più presto al Bar di Umbro e bermi qualche Mezcal lamentandomi insieme a qualche vecchio su come a volte la vita può esser dura.
Intravedo in lontananza l’osteria di Umbro e capisco fin da subito che in queste condizioni non sarà facile posteggiare in modo decente, preferisco lasciare l’auto lì fuori, in mezzo alla strada, intanto da queste parti passa una macchina ogni morte di Papa.
Appena entrato Umbro, che ormai sa che lo vado a trovare solo quando devo ridurmi da buttar via, mi dice:
“Ehilà Vladimiro, come mai da queste parti: delusioni d’amore, debiti da pagare o cos’altro?”
“Un po’ di tutto ed un po’ di niente Umbro, ma sappi che la tua scorta di Mezcal ha breve vita”
“Oh, non ti preoccupare che ne ho la cantina piena, (per lui significa un paio di bottiglie al massimo) sei l’unico che mi beve quella schifezza al gusto di cherosene. Piuttosto direi che hai già dato fondo alla scorta di qualche altro Bar.”
“No, a quella di casa mia. Mettimi da parte un paio di bottiglie che me le porto via a fine serata.”
“Sempre che riesci ad uscire di qua sulle tue gambe, perché ti vedo già bello pienotto”
“Non ti preoccupare che a casa io e la mia macchina ci torniamo... ed interi”
“Come vuoi” e me ne versa uno, mentre i vecchi seduti ai tavolini ci ascoltano e mi guardano con l’aria di chi la vita l’ha già vissuta e quasi rimpiange i miei problemi di giovane. Per forza, loro darebbero qualunque cosa per poter avere ancora una ragazza da rimpiangere o una notte di sesso da ricordare, ormai non gli tirerà più da anni e credo che il vino abbia offuscato il desiderio ed il lontano ricordo del loro ultimo amplesso. In poco tempo si dimenticano della mia presenza e ritornano a parlare delle semine o a bestemmiarsi dietro perché con un sette bello in tavola non si può non fare scopa.
E come dice il buon vecchio Guccio, “Non posso e non so dir per niente, se peggiore sia, a conti fatti la loro solitudine o la mia”.
Mentre loro continuano a chiacchierare ed a discutere io continuo a bere e sfogarmi con Umbro, che facendo finta di ascoltarmi e capirmi, pensa già all’enorme conto che  mi presenterà a fine serata. Per un paio di volte mi trascino in bagno per infilarmi due dita in gola e creare un po’ di spazio a dell’altro alcool; purtroppo non Mezcal perché come previsto è finito. Barcollando tra un tavolino e l’altro, urtando e rovesciando qualche bicchiere abbandonato sui tavoli vuoti riesco a raggiungere il mio sgabello, dove Umbro mi convince a bere del vino che a sua detta farebbe gola anche a Bacco.
La fine della serata arriva e con lei anche il momento di andarsene ed affrontare il viaggio con la paura di poter ritrovare la lucidità. Due tizi neanche, troppo vecchi, mi accompagnano, o meglio mi sorreggono fino alla macchina. Faccio un enorme fatica a sedermi e trovare il nottolino per la chiave. I due quasi mi implorano di lasciare l’auto lì e di farmi accompagnare a casa da loro; ma non possono capire che la mia Escort va dove vado io! In un modo o nell’altro riesco a partire e impiegando circa un quarto d’ora per far manovra riesco anche a dirigermi verso casa. La testa mi sembra gonfia, la strada un immenso nastro gommoso che continua ad articolarsi di fronte a me, le gallerie si fanno strane e quasi enormi, gli alberi a lato sono diventati moltissimi e  più vicini alla strada, non riesco  capire quante corsie ci siano e quante righe di mezzeria, ed ancora meno riesco a rendermi conto di quanto sia larga la strada o se ci sia del ghiaccio o meno. E’ buio, è tutto così buio!

 
NONO LIVELLO



Ore 4.52
“Signor Visconti, Signor Visconti si svegli !”
E’ la voce di un’infermiera, apro gli occhi e mi ritrovo a fissare una forte fonte di luce, quella di una lampada da lettino medico, un’infermiera anzianotta sta tentando di farmi riprendere mentre un’altra più giovane sta regolando il flusso della flebo attaccata al mio braccio. “Ma cosa mi è successo? Dove sono?”
La più giovane sorride con l’aria di una che di queste domande ne ha già sentite a migliaia, mentre la più anziana con una voce pacata e l’aria quasi rimproverante da predica materna mi spiega:
“Ha avuto un incidente, non si ricorda? E’ volato giù da un burrone con la sua auto, è un miracolo che non si sia fatto niente”
“E la macchina? Cosa si è fatta la macchina?”
“Non lo sappiamo, mi dispiace.”
Allora interviene la più giovane, che forse delle due è anche la più brutta:
“Ma lascia perdere la macchina, con il volo che hai fatto dovresti essere morto, invece non hai assolutamente nulla, e poi con tutto l’alcool che ti abbiamo trovato in corpo è già grazie che non sei finito in coma etilico”
Nonostante mi senta abbastanza lucido, non riesco a capire con precisione cosa mi sta succedendo, non riesco ancore a comprendere le sfumature della situazione, però riesco a capire che devo aver combinato un bel casino. Le due infermiere dopo essersi raccomandate di non pensare a nulla se non a riposarmi, escono dalla sala medica lasciandomi solo a fissare un muro bianco sporco e degli attrezzi medici che aumentano la depressione mista paura che si sta insidiando in me. Dopo poco tempo, o perlomeno mi è parso poco, entrano due carabinieri accompagnati da un dottore.
“Bene Signor Visconti, abbiamo fatto baldoria stanotte vero? Oh, ma non si preoccupi che gliela facciamo passare noi la voglia di ubriacarsi.”
Di fronte ad una presentazione del genere non si può far altro che dare pane al pane.
“Senta, lei è qua per fare il suo lavoro, non per prendermi in giro, quindi per cortesia faccia quello che deve fare senza peggiorare la situazione con della stupida ironia.”
“Giovanotto, allora lei non si rende conto, vuole addirittura fare il furbo, ma lo sa che con il disastro che ha combinato rischia il penale?! Io se voglio la rovino! Le faccio passare la voglia di fare l’imbecille.”
“Imbeccille lo va a dire a sua moglie ed a suo figlio, ma non si permetta di venire in una sala di un pronto soccorso medico ad insultarmi, lei faccia il suo lavoro, mi faccia un verbale da infarto o mi stracci la patente se lo ritiene opportuno, ma non mi rompa i coglioni”
A questo punto il carabiniere più giovane urlandomi che non mi devo permettere mi prende per il colletto della camicia ed ad un dito dalla mia faccia incomincia ad urlarmi cose incomprensibili in napoletano stretto.
Il medico che era presente interviene ordinandomi di stare calmo ed allontanando i due sbirri pregandoli di tornare l’indomani quando la situazione sarà più calma. I due si scusano con il medico e se ne vanno dicendomi che è la feccia  come me a rovinare il nostro Bel Paese. Appena si voltano gli mostro il dito medio della mano destra. Il medico (molto giovane tra l’altro) mi guarda sorridendo e dice che lui gli odia ‘sti carabinieri, che sono convinti di poter governare il mondo. Dalle sue parole mi sembra di capire che non è il solito babbaccio secchione e gli rispondo:
“Grande! E’ così che dovrebbe essere, via gli sbirri dall’ Italia.”  Questo mi guarda con l’aria di chi condivide ma non può sbilanciarsi e mi dice:
“Non sarebbe male, comunque torniamo a te: ora ti faccio portare su in corsia, ti faccio dare un bel letto e te ne stai buono fino a domani sera, così passate le ventiquattro ore di osservazione te ne vai a casa  Ok?!”
Avrei voluto rispondere che non era ok proprio per  niente, che io dovevo uscire ed andare a controllare le condizioni della mia macchina, che domani sera c’era il concerto di Guccini e che il mio principale non mi avrebbe permesso di stare in ospedale così a lungo. Ma in realtà mi sono limitato a rispondere: “Ok”.
Il tipo esce stringendomi un piede come saluto, quasi sapesse che da lì in poi non avrei fatto altro che pagare le conseguenze della mia bevuta.
Poco dopo entra un barelliere; un tipo tanto analfabeta da non riuscire a mettere assieme un’intera frase, ma con l’aria molto simpatica. Batte due colpi sul trasportino e mi fa segno di sdraiarmici sopra. Senza fiatare, faccio ciò che mi dice e mi lascio portare a zonzo per l’ospedale. Prima lungo i corridoi del pronto soccorso fra gli occhi curiosi della gente in attesa del loro turno, che più che guardarmi mi analizza, poi in un ascensore con un fortissimo odore di disinfettante ed ancora nei corridoi deserti dei piani superiori; fino ad arrivare nella corsia dove si trova il mio letto. Il barelliere accosta la lettiga sulla quale sono sdraiato e bussa alla porta di quella che sembra essere la piccola cucina del reparto. Aprono due giovani infermierine del turno di notte, due tipe dall’aria molto simpatica e gioviale, entrambe con in mano una tazza di caffè bollente. Il barelliere confabula con loro e mi indica con un cenno della testa e la più anziana delle due chiede conferma che io sia “quello dell’incidente”.
Il barelliere si allontana salutandomi strizzando l’occhio e l’infermiera più giovane si rivolge a me in modo molto amichevole:
“Allora signor...”
ed estrae i fogli dalla cartella clinica:
 “Vladimiro Visconti, adesso ce ne andiamo di la sul tuo bel lettuccio e ci facciamo tanta nanna che ne ha bisogno”
Oh Cristo, questa mi ha preso per scemo:
“Vladi, mi chiamano tutti Vladi, o perlomeno tutti i miei coetanei, e credo che tu faccia parte di quelli. E poi dai, non vorrai mica infilarmi di la in mezzo ai vecchi che russano e sperare che io dorma, voglio dire non mi sono fatto assolutamente niente, se devo restare qua per forza almeno fatemi stare con voi, in compagnia. Altrimenti muoio di noia, e quando mi dimettete sono più rincoglionito di quei vecchietti russanti.”
L’infermiera si volta a cercare una conferma nello sguardo della più anziana delle due, che prontamente annuisce con un piccolo movimento del capo.
“Allora dai, salta giù da quella lettiga e versati un caffè”
“Ok, come mi chiamo lo sapete e credo che sappiate anche un po’ del resto, perlomeno delle ultime ore della mia vita, ore tocca a voi presentarvi”
Ascolto i loro nomi mentre mi verso il caffè.
Ore sei e trentacinque:
due ausiliarie spalancano tutte le finestre facendo entrare la luce ancora fioca del giorno e sostituendo la vecchia aria, viziata ma calda, con quella nuova, ossigenata ma gelida. Cerco con lo sguardo di trovare Milena ed Anna, le due tipe del caffè, in mezzo al mucchio d’infermiere che sta invadendo la sala, ognuna con lenzuoli, medicine, flebo, cuscini, cartelle mediche e via dicendo. L’odore del disinfettante usato dalle ausiliarie per lavare i pavimenti mi provoca quasi bruciore alle narici, che solo ora scopro essere piene di sangue coagulato e molto indolenzite, devo aver preso una facciata sul volante. Ancora assonnato mi vedo porgere un contenitore per le urine e senza neanche avere il tempo di chiedere spiegazioni mi viene fatto notare che: o urino lì dentro nei prossimi cinque minuti o mi mettono il catetare. Dio come odio gli ospedali. Sono solo capace di rispondere dicendo: “Buongiorno!! ”
A metà mattinata arrivano, ma lo sapevo che sarebbero tornati, gli aspettavo: vedo i due carabinieri di ieri sera entrare di gran passo e venirmi dritti incontro.
“Signor Visconti buongiorno, ha dormito bene stanotte, oppure ha fatto qualche incubo premonitore? Allora, visto che lei ieri sera si è rifiutato di voler verbalizzare una dinamica dell’incidente abbiamo dovuto attenerci ai rilevamenti effettuati dai nostri colleghi della Stradale. Quindi qui abbiamo un bel verbale per: guida in stato di ubriachezza, eccesso d velocità, guida pericolosa, guida senza cinture di sicurezza, oltraggio al pubblico ufficiale; poi vediamo un po’ cosa c’è in questa bella cartellina... ohhh, ma  cosa vedo: una verbalizzazione della sospensione della sua patente per mesi sei, il sequestro della sua autovettura, o di quello che ne è rimasto, con il parcheggio obbligato per mesi nove all’interno delle nostre strutture, parcheggio che naturalmente dovrà essere pagato. Non dimentichiamoci inoltre del verbale per tutte le modifiche non in regola con il Codice della Strada che le abbiamo riscontrato sulla vettura. Come lei stesso può ben vedere la bevuta di ieri sera le è costata cara. Buona giornata signor Visconti, ah quasi dimenticavo, la salutano quegli imbecilli di mia moglie e mio figlio.”
Mi butta tutta la documentazione più una scatola di medie dimensioni sul letto e se ne va, con quell’aria soddisfatta di chi ha appena fatto giustizia.
Trattengo a fatica le lacrime, butto da un lato i verbali e le citazioni in tribunale e mi concentro sulla scatola. Aprendola scopro che contiene i miei effetti personali ritrovati sulla macchina: telefonino ancora acceso, una foto di Miriam, tre accendini Bic, una decina di cd e le foto della macchina dopo l’incidente. Fisso lo sguardo sulle foto, non riesco a crederci, non posso e non voglio credere che la mia macchina si ridotta così. Da buttare via, si fa fatica a riconoscerla. Adesso non trattengo più le lacrime.
“Sono andati giù pesante quei bastardi” Milena mi abbraccia e mi fa appoggiare la testa sulla sua spalla. Io non riesco neanche a risponderle, sono solo capace di piangere, piangere e singhiozzare come un bambino piccolo. Milena prova ancora in qualche modo a consolarmi, ma alla fine si rende conto che non c’è molto da dire e aspetta, come una brava mamma, che io abbia finito di sfogarmi. Al che alzo lo sguardo, con gli occhi ancora pieni di lacrime e mi scuso:
“Sei fin troppo brava Milena e pensare che ieri sera ti avevo giudicata molto diversa. Ma perché poi ti preoccupi per me, sono solo uno dei tanti pazienti che stasera se ne andrà.”
“Tu sei solo uno dei tanti pazienti, ma come tutti i pazienti sei un essere  umano, una persona. E se una persona piange in quel modo vuole dire che ha bisogno di aiuto, perlomeno di consolazione. Visto che mi hai giudicata male,  lo vuoi un caffè prima di staccare il turno?”
“Sei un angelo”
Mi porta il caffè già cambiata e vestita da civile, così è anche carina, si siede a chiaccherare con me. La sua presenza mi è di grande aiuto, non mi fa pensare a ciò che è successo ieri e tantomeno a quello che può essere successo nelle stesse ore ad Alessia. Si fa presto l’ora di pranzo e Milena se ne va lasciandomi il suo numero di telefono e promettendomi di farsi sentire. Il pasto è naturalmente uno schifo; come il pomeriggio la cui monotonia è spezzata solo dalla visita dei medici che mi consegnano il foglio di dimissioni.
Ore 18.00 posso andarmene!
Metto in un sacchetto nylon quella poche cose che ho deciso di tenere tra quelle che mi ha consegnato lo sbirro, mi faccio chiamare un taxi e mi faccio accompagnare nel parco dell’autodemolitore dove hanno portato la mia auto. Chiedo al tassista di aspettarmi pochi minuti e mi dirigo verso il mio Escort per dargli l’ultimo saluto. Quello che ne rimane è quasi irriconoscibile e trattenendo a fatica le lacrime passo lentamente la punta delle dita sul cofano e sul tetto.
“Ciao piccola, cosa ti ho fatto! Non te lo saresti mai aspettato da me vero? Eppure è successo, e quel che è peggio è che è successo andando piano. Non ti ho dato nemmeno una morte gloriosa! Mi dispiace piccola, non doveva finire così. Addio”
Il tassista mi attende vistosamente spazientito a bordo strada. Risalgo in auto e mi faccio portare a casa.
Prima di salire mi cade l’occhio sulla porta del box, l’idea che sia e che resti vuoto mi addossa un senso di depressione che difficilmente riuscirò a scacciare nei prossimi giorni. Salgo in casa, mi butto sul divano ed estendendo al massimo il braccio riesco a raggiungere il tasto della segreteria telefonica ed ascoltare i messaggi che contiene. Fra tutti quelli dei miei amici, alcuni realmente preoccupati per la mia salute altri che si preoccupano solamente di prendermi un po’ per il culo ci sono anche i messaggi di Alessia e quelli del mio principale. La prima si dice furibonda perché non sono andato a prenderla in aereoporto, ed il secondo invece, più preoccupato del lancio del gioco che per me, si raccomanda di farmi sentire al più presto se ci tengo al mio impiego.
A quest’ora dovrei essere già di fronte ai cancelli del Palazzetto dello Sport con addosso una maglietta di Guccini e sulle spalle la bandiera del Chee. Invece sono qui sdraiato con un’aria da moribondo senza la minima voglia di andare al concerto e senza neanche sapere che fine abbia fatto la persona che doveva venirci con me; che tra l’altro non so nemmeno se sia ancora la mia ragazza. Mi appisolo sul divano per più di mezz’ora e vengo svegliato del brusco e continuo suono del campanello di casa. Apro la porta e mi trovo di fronte Alessia che guardandomi con aria ben poco amichevole mi dice:
“Buongiorno, chi non muore si rivede! Ti ho aspettato due ore all’aereoporto! Lì in piedi come una scema, al freddo! E poi oggi non dovevamo andare al concerto assieme? Ed invece ti trovo bello tranquillo, pacifico e beato che te la dormi sul divano! Cazzo ma chi ti credi di essere per trattarmi così! “
“Almeno hai raggiunto l’orgasmo?” chiedo io.
“Ma che cazzo stai dicendo Vla? Ti sei rincoglionto o cosa?”
“Ti ho chiesto se ieri notte lavorando con quello stilista hai almeno raggiunto l’orgasmo? Ma forse no visto che tu ti scopi le firme importanti solo per lavoro”
“Oh Cristo, Vladi! Non mi verrai a dire che te la sei presa per quella battuttina?! Guarda che io non ci ho fatto niente col tipo se è questo che vuoi sapere. La storia di portarmi a letto era solo per farti ingelosire un po’ , non te la sarai bevuta spero?”
“Farmi ingelosire un po’?! No, scusa hai ragione , la mia ragazza mi telefona da non sò nemmeno dove e mi dice che è a cena con uno stilista e che mi telefona di nascosto perché se lui sapesse che è impegnata non se la scoperebbe più e non le darebbe il contratto. E non dovrei crederci? Ci ho creduto talmente tanto che ho distrutto la macchina, mi sono fatto due giorni di ospedale, mi hanno ritirato la patente e fatto quasi quindici milioni di verbali! Ecco quanto ci ho creduto!
Ed ora vattene, vai via di qua prima che ti metta le mani adosso!”
“Cosa stai dicendo Vladi, scherzi vero?”
“Ti ho detto di levarti di qua, esci immediatamente dalla mia casa, vattene fuori dai coglioni, sparisci, evapora, muori, fai quello che cazzo vuoi, ma levati da qui e se ce la fai levati anche dalla mia vita.”
Lei si volta senza neanche rispondermi e con l’aria di chi è indeciso se piangere o picchiare se ne va sbattendo la porta. Nel momento stesso in cui pronunciavo quelle parole mi ero già pentito di averle dette, dopotutto non è colpa sua, lei forse stava davvero giocando senza rendersi conto di quanto male mi avrebbe potuto fare. Ma no, che cosa sto pensando, lei si è davvero fatta dare da quel coglione e se va bene gli è anche andata male e non ha ottenuto quello che voleva, poi è tornata con la scusa del  farmi ingelosire e sperava di poter rimettere tutte le cose al suo posto. Non ha però calcolato che le cose al loro posto, ora, non ci torneranno mai più.
Istintivamente mi dirigo verso il mobile dei liquori per versarmi un Mezcal, ma prima ancora di rendermi conto che è finito vengo invaso da un insopportabile senso di nausea che mi persuade dall’idea. Mi siedo a tavola ed appoggio la testa sul tavolo. Vorrei piangere, vorrei urlare, vorrei gridare al mondo intero di lasciarmi stare, vorrei far capire a tutti che non me ne frega un emerito cazzo del loro mondo, del loro stile di vita e delle loro fottute regole di comportamento. E invece non riesco nemmeno ad ubriacarmi. A cosa servirà poi tutto questo? Perché vivere una vita intera correndo, pensando, e cercando di costruire un qualcosa che indiscutibilmente  crollerà quando moriamo? Perché correre, verso cosa poi? Basta non ne posso più! Sono stufo di dover rispettare le regole di un gioco inventato e condotto da altri, sono stufo di dover sottostare a delle normative e dover adattare la mia vita o addirittura modificarla ad un qualcosa o verso un qualcosa che non voglio e non condivido. Basta sono stanco e stufo di dover fingere di vivere. Io voglio vivere... a modo mio!
Mi alzo di scatto, prendo il telefono,  chiamo il mio principale.
“Signor Fantoni buongiorno sono Vladimiro.”
“Oh Buonasera, chi non muore si risente, ci siamo anche permessi di sparire senza dir nulla quando mancano solo due giorni alla presentazione ufficiale.”
“Sì, ero in ospedale, ho avuto un incidente stradale.”
“Oh scusa non lo sapevo, ma  non ti sei fatto male vero, ci sei alla festa del lancio. Lo sai che ci devi essere”
“Sì, sì, non si preoccupi ci sarò. Le chiedo solo due favori: potrebbe lasciarmi ancora domani libero per rimettermi un po’ in sesto e poi se cortesemente potrebbe lasciarmi il biglietto d’aereo prenotato in biglietteria qui al “Cristoforo Colombo” ?”
“Sai bene Vladi che questi sono favori un po’ grandi da chiedermi e che di solito non li facciamo. Ma visto il tuo particolare problema credo di poterti accontentare. Ascolta prenditi tutto il tempo che vuoi, ci vediamo direttamente a Milano alla presentazione. Ok?”
“Perfetto grazie, mi ha letto nel pensiero”
“Oh, figurati. Ci vediamo dopodomani allora”
“Ok, la saluto”
Riaggancio e sorridente mi preparo la cena.






 
DECIMO LIVELLO



Ore 08.30 lo stereo insiste per svegliarmi, realizzo in poco tempo di non dover andare al lavoro; mi alzo ugualmente sapendo che mi attende una dura e lunga giornata. Mi vesto molto lentamente, prendendomi tutto il tempo necessario per fare le cose con calma, finalmente senza fretta, senza orari e senza nessuno a cui dover rendere conto delle proprie azioni.
Esco di casa e vado al Bar dove di solito stanno Scianca e gli altri. Il tragitto da casa mia al Bar a piedi non è proprio una passeggiata, ma io non ho nessuna fretta. Arrivato al Bar vedo che come sospettavo non c’è nessuno di conosciuto: per loro è ancora troppo presto. Mi siedo in un tavolino appartato ed ordino una cioccolata calda corretta “Pampero”, un croissant alla marmellata ed un succo di frutta gusto mela. Consumo il mio primo pasto della giornata in circa trenta minuti, mi fumo un paio di sigarette ed esco salutando nel modo più cortese che conosca. Oggi mi sento in pace con il mondo! La camminata che mi separa dalla Banca non è lunghissima, ma lo è quanto basta per farmi notare che il mondo visto e scrutato la mattina presto non è poi così malvagio. A quest’ora chi deve essere al lavoro c’è già e chi è in giro c’è perché ci vuole essere. Sono tutti sereni, riposati e tranquilli o forse semplicemente sono io che li vedo così.
Arrivato in Banca e smaltita la folta coda, arriva finalmente il mio turno. La cassiera, poco più che trentenne e decisamente bruttina si presenta in modo molto gradevole e con un tono piuttosto cordiale:
“Buongiorno Signore sono Patrizia, in che cosa posso esserle utile?”
“Buongiorno Patrizia, io avrei bisogno di estinguere il conto numero 10964 intestato a Vladimiro Visconti.”
“Benissimo, mi servono un documento di identità valido, la sua carta Bancomat ed il suo libretto di assegni.”
Sbrigate le formalità burocratiche, la tipa mi consegna una busta contenente l’intero ammontare del mio ex conto. Esco dalla Banca soddisfatto e mi reco dal primo Fioraio che trovo ordinandogli tre mazzi di fiori e pregandolo di poterli consegnare a domicilio con i relativi tre biglietti; sul primo dei quali scrivo:

“Alla Famiglia Visconti:
non preoccupatevi per me,
sto bene e prometto di
chiamarvi appena possibile.

Vostro figlio Vladi”



Sul secondo invece scrivo:

“Per Alessia:

Ciao Piccola, evidentemente

non siamo fatti per capirci.
Quello che c’é stato tra noi
ha avuto un sapore meraviglioso
che mi sarà difficile scordare!
Non ti dimenticherò,non farlo
nemmeno tu!
per sempre Vladi”

e sul terzo:

“Ciao Miriam:
Spassatela finché puoi
perché un giorno capirai
come me, la sottile differenza
tra il gioco e la vita.
Senza Rancore... Vladi”
Mi accordo sull’ora della consegna, pago e passo alla prossima commissione.
Mi dirigo verso un negozio di abbigliamento, il mio preferito. Credo di dovermi rifare un minimo il look.
La commessa giovane e tanto carina quanto inesperta mi chiede molto cortesemente di cosa ho bisogno.
“Vorrei una decina di magliette estive, possibilmente a tinta unita e girocollo, nere e grigie se le ha, in più avrei bisogno di tre paia di jeans colore nero taglia 46/48 e di tre pantaloni estivi di tessuto leggero possibilmente con i tasconi laterali; grazie”
“Ma vede Signore siamo in inverno non abbiamo ancora il campionario estivo.”
“Lascia perdere il Signore ed il lei, abbiamo più o meno la stessa età, però senti non avete qualcosa tipo rimanenza di magazzino dall’estate scorsa, perchè vedi, si da il caso che io abbia estremo bisogno di quella roba ed abbia anche una certa urgenza.”
“Beh, per i jeans non c’é sicuramente problema, ma per il resto posso chiedere alla principale se le risulta che ci sia qualcosa in magazzino.”
La principale del negozio, una  signora sulla cinquantina con il trucco estremamente monile riesce dopo una decina di telefonate a recuperarmi quello che mi serve fra i vari grossisti che conosce. La roba arriverà però solo nel pomeriggio. Appena uscito dal negozio mi dirigo in farmacia chiedendo informazioni su quali vacini bisogna fare per evitare malattie strane in Paesi esteri, il medico della farmacia mi spiega che ci vorrebbe un po’ più di precisione su quali sono i paesi esteri, ma in realtà non lo so neanche io, così mi suggerisce di provare alla Asl locale dove hanno un ufficio apposito. Evito di parlare della mia mattinata all’ Asl perchè sulla funzionalità degli uffici pubblici ci si potrebbe scrivere un trattato, ma in un modo o nell’altro sono riuscito ad ottenere tre iniezioni più o meno antitutto, ma  a questo non ci credeva nemmeno il medico che me le ha praticate.
Chiamo un taxi dal quale mi faccio portare all’ Illusion per mangiae qualcosa, niente di pesante: un risotto ai gamberi ed un mezzo litro di buon vino.
All’Illusion me la prendo con molta calma e fra qualche sigaretta ed un buon amaro chiamo Strappa, una vecchia conoscenza che mi deve ancora un favore. Mi accordo con Strappa per passare in negozio da lui nel pomeriggio e gli spiego che mi dovrebe fare una cortesia e che è molto importante.
Alle sedici e trenta circa chiamo un altro taxi che mi riporta in città, ed intanto Strappa ha aperto il negozio.
“Ciao Strappa è un po’ che non ci vediamo, come te la passi?”
“Ohh, ma chi vedo, un grafico di giochi proprio nel mio negozio, il peggiore negozio di videogichi della città... quale onore!”
“Piantala di prendermi per il culo, come ti va?”
“Beh, finchè mi vedi qua dentro vuol dire che mi va male”
“E la tua seconda attività? Ce l’hai sempre?”
“Che seconda attività? Mai avuto altro oltre al negozio”
“Dai Strappa sai di cosa sto parlando”
“No Vladi, sono fuori dal giro, ho smesso da quasi un anno ormai, non mi dire che era quello il favore che ti serviva?”
“Eh già, proprio quello, non è che per me potresti fare un richiamino?”
“Vla, sai che sono cose bastarde e che mi mette male, e poi sono cose che si pagano care”
“Quello non è un problema, quanto mi costa?”
“Diciamo una milionata se te ne stai della generalità che ci sono sopra.”
“Ci sto, ce la fai per stasera?”
“Alle dieci non prima, prima di uscire lascia la foto nel portaombrelli”
“Grazie sei un amico”
“Prego, se però poi il gioco è così bello come dicono non ti dimenticare del tuo vecchio amico che li vende i giochi”
“Oh bene, vedo che hai parlato con Alessia”
“Vladi, lei non voleva farti del male!”
“Ma lo ha fatto, lasciamo perdere non ne voglio parlare, ci vediamo alle dieci.”
Esco sorridente... ed il passaporto lo abbiamo!
Vado a ritirare la mia roba dal negozio di abbigliamento che dal conto sembra essersi fatto pagare anche le telefonate ed il disturbo. Me ne vado a casa aspettando la sera e l’ora dell’ appuntamento con Strappa.
Salto la cena, ancora sazio dell’ottimo pranzo fatto all’Illusion ed ancora un po’ nauseato dalla sbornia presa da Umbro. Invio qualche mail agli amici, tanto per salutarli e mi metto un po’ in ordine il monolocale. Le dieci arrivano fortunatamente in fretta, come in fretta mi diriggo da Strappa per ritirare i documenti che gli ho chiesto. Appena di fronte al suo negozio vedo la saracinesca chiusa e le luci spente e vengo avvolto da un esagerato senso di paura, di delusione e soprattutto di spaesatezza. Ora che faccio? Cazzo qui mi salta tutto senza i documenti! No, un attimo, calmiamoci; provo a bussare sulla saracinesca del negozio e sento la voce di Strappa che dice:
“Un attimo sto arrivando! Chi è? ”
“Finanza apra”
La saracinesca del negozio si apre di scatto ed il viso di Strappa diventa da bianco pallido impaurito a rosso fuoco.
“Coglione mi hai fatto venire un infarto! “
“Dai era solo uno scherzetto”
“Scherzetto un cazzo, qui mi sequestrano anche il capellino che ho in testa”
“Dai tagliamo corto che ho un po’ di fretta;i documenti come sono venuti? “
“Scusa Vladi ma non li ho! Ho avuto un imprevisto qui in negozio e non ho avuto il tempo di farteli avere”
“Cazzo Strappa, io ci contavo Cristo Santo! Ora come faccio, sono nella merda più nera! “
“Scherzetto! Sono nel porta ombrelli, quando esci lascia lì i soldi e prenditeli.”
“Fanculo, te e gli scherzetti”
E mi diriggo verso l’uscita.
“Ci vediamo presto? “
“No,non credo”
Estraggo dalla tasca interna del mio Eskimo una busta contente i soldi e mentre esco la lascio cadere nel portaombrelli scambiandola con i documenti.
Apro la porta del negozio ed esco senza voltarmi, senza ulteriori saluti; in fondo mi dispiace un po’.
Strappa mi rincorre e mi domanda a cosa mi sarebero serviti i documenti.
“Per vivere Strappa, mi servono per poter continuare a vivere! “
“Vladi non fare cazzate! “
“Ne ho mai fatto? “
“Almeno una al giorno”
“Fanculo Strappa, grazie ancora e non ti preoccupare per me, non l’hai mai fatto.”

M’incammino verso casa, mentre la ghiacciata brezza notturna mi si insidia nelle narici risvegliando i dolori post incidente e lasciando cadere qualche gocciolina di sangue. Arrivato a casa mi infilo di corsa sotto la doccia e mi scelgo un giusto sottofondo musicale: i “Senso Unico” dovrebbero andare bene.
Una lunga e ricostituente doccia mi rilassa quel tanto che basta per farmi iniziare ad avere un po’ di sonno; mi preparo la valigia, programmo lo stereo decidendo di lasciare i Senso Unico per il risveglio del giorno dopo e m’infilo a letto.
Domani c’è l’inaugurazione di “The Black Ship” e quel coglione di Fantoni mi aspetta a Milano insieme a tutti i giornalisti ed i colleghi e gli amici e le mogli dei colleghi e le mogli degli amici e tutte le altre persone che solo per domani metteranno da parte la nausea che gli provoco, fingendosi contenti di vedermi e di conoscermi. Domani sarà una dura giornata!

Ore 7.30, i Senso Unico attaccano violentemente con “Lasciatemi Stare”, mai colonna sonora fù più azzeccata. Soliti rituali del mattino, breve colazione: caffè amaro e sigaretta.
Mentre aspetto il taxi per andare all’ aereoporto mi lavo la tazzina del caffè e mi fumo un altro paio di sigarette sorprendendomi la mani tremolanti per l’agitazione.
Scendo le scale, soffermandomi un attimo di fronte alla porta di Alessia e scacciando il pensiero di lei così bella ed ancora addormentata nel suo trasparente pigiama.
Appena uscito in strada scorgo il taxi arrivare, perfetta sincronia.
Salgo in macchina, una Mecedes 190E quasi d’epoca ormai, e mi faccio portare all’aerepoporto.
Fortunatamente il tassista è un incallito funatore e mi permette di fumare le mie due sigarette; altrettanto fortunatamente è un tipo parecchio riservato e non fa le solite domande del cazzo da tassista; oppure semplicemente è uno che fa il suo lavoro e lo fa bene.
Appena arrivato all’aereoporto mi faccio quasi vincere dalla voglia di lasciar perdere tutto e di tornarmene a casa nel mio caldo e sicuro letto, ma alla fine mi ritrovo in coda di fronte alla biglietteria.
La commessa fa un po’ di storie sul fatto che per ritirare un biglietto prenotato dovrei avere la cedola di prenotazione, ma dopo averle spiegato il perché non ho quella maledetta cedola si convince a rilasciarmi comunque il biglietto.
Il volo in aereo è dei più classici e banali e quasi ancora più banali e sicuramente più tristi sono i miei compagni di volo.
Appena arrivato a Milano non trovo nessuno ad attendermi, come previsto, e così mi diriggo subito al tabellone elettronico delle partenze; dove la mia attenzione ricade subito sul volo “Alitalia AZ3986” delle 10.05 per Houston, con scalo a New York.
Mi precipito immediatamente in biglietteria, forse ce la faccio.
Dopo un po’ di lotta con la gente in coda allo sportello, che si lamenta per non ho ben capito quale ritardo, ottengo il mio biglietto. Nell’attesa che annuncino  il mio nuovo volo faccio un passo al bar, dove fra un pessimo capuccino e qualche migliaio di sigarette incontro Maria, una signora trentaseienne che torna alla sua vita a Houston dopo una prolungata visita natalizia ai parenti italiani. Chiacchierando non ci accorgiamo di quanto il tempo passi e ben presto annunciano il nostro volo.
Proprio mentre ci stiamo accingendo ad entrare nella corsia d’imbarco mi squilla il telefonino: è il mio principale che mi chiede a che punto sono e se va tutto bene. Scoppio in una risata quasi isterica e lasciando cadere il telefonino nel cestino dell’immondizia dico ad alta voce:
“ Sì Signor Fantoni, va tutto a meraviglia!! “
Maria mi guarda come se avesse di fianco un pazzo scatenato e fa quasi finta di non conoscermi, ma educata, non mi domanda spiegazioni, anzi dopo pochi passi lascia andare un ghigno divertito.
So bene quello che sto facendo, anzi no, non lo so affatto cosa sto facendo, ma quello che è certo è che lo sto facendo!









demo
inizia nuova partita
pausa
riprendi partita
salva
carica salvataggio
esci






Ho gli occhi che non ce la fanno più, se fisso questo monitor, ancora un po’ divento cieco!
Meglio prendersi una pausa ed ascoltarsi un po’ di buona musica...











LASCIATEMI STARE (Senso Unico)

Lasciatemi starenon riesco a sentire
il Suono violento è molto meglio di voi
Lasciatemi stare non voglio parlare
non voglio ascoltare i vostri cazzo di guai
Noo, non riesco a sentire
e voglio volare
Noo lasciatemi stare
sto per impazzire.
La meta raggiunta non vi ha regalato
quello che voi avete sempre sognato
ed ora... che fai? Mi chiedi il perchè
Ti lascio parlare tanto non puoi capire
cerca lontano ma vicino al cuore
alle profondità che tu non hai mai toccato
la vita la scopri solo così
c’è gente che ride senza un perchè
Noo, non riesco a sentire
e voglio volare
Noo lasciatemi stare
sto per impazzire.
Lasciatemi stare che voglio volare
ma voglio imparare a farlo da me
e se cado giù ancora lasciatemi stare
che voglio morire nella mia follia


Ora va molto meglio, posso riprendere la partita




demo
inizia nuova partita
pausa
riprendi partita
salva
carica salvataggio
esci





Appena saliti in aereo ci accordiamo con due passeggeri per fare in modo di poterci sedere assieme, pensando che scambiando due parole il viaggio possa scorrere decisamente più veloce; anche se a dire il vero io non ho nessuna fretta di arrivare, anzi non ho nessuna fretta di far niente! L’aereo inizia a rollare sulla pista e si alza in volo con una semplicità da credersi impossibile se non stessi vivendo questa situazione. Sì lo ammetto è la seconda volta nella mia vita che volo e la prima è stata meno di due ore fa’.
Vedo Malpensa allontanarsi sotto di me, diventare estremamente piccola, e con lei diventano piccoli tutti i miei problemi, diventa piccola Genova e l’Iialia stessa, mi scappa una lacrima.
Durante il viaggio le hostess si rivelano molto gentili, quasi troppo, addirittura invadenti. Maria commette l’errore di chiedermi:
“Come mai a Houston? Lavoro o divertimento? “
“Non lo so nemmeno io Maria; Houston perché era il primo volo distante dall’ Italia ma avrebbe potuto essere una qualsiasi altra meta sparsa per il mondo. Non sto andando in un posto, ma sto lasciando un posto: l’Italia per l’esattezza. In Italia ho avuto un po’ di problemi ultimamente, problemi relativamente di poca importanza, niente di irrisolvibile, ma che in questo preciso momento della mia vita sono troppo grossi per essere affrontati e così me li lascio alle spalle. Sto cercando di andare oltre, oltre l’italiana percezione delle cose, sto semplicemente lasciandomi alle spalle ventidue anni di vita per vedere se sono ancora in tempo per disintossicarmi da quello che la nostra società mi ha inculcato. “
Vedo Maria estremamente perplessa e poi mi chiede in modo molto serio:
“Stai scherzando vero? “
“ No assolutamente no! “
“Ohhh Cristo, sto viaggiando con un pazzo scatenato che si crede il protagonista di un film, ma guarda dammi retta, se vuoi scappare dalla merda, a Houston ne troverai solamente altra.”
“Non credo che mi fermerò a Houston, anzi credo che ripartirò prima possibile. “
“E sentiamo un po’, dov’è che vorresti andare? “
“Non lo so, te l’ho già detto quando sarò là vedrò cosa fare e dove andare, non escludo che magari mi fermi anche un pochino a visitare la tua città.”
“Folle, tu sei folle, hai idea di quanti soldi ti servano per affrontare un viaggio come quello per cui sei partito? “
“Beh, qualche soldo ce l’ho, quelli non dovrebbero essere un gran problema. “
“Allora dammi retta quando sarai nel Texas, non farlo capire, altrimenti a casa ti ci rimandano subito, ma dentro una bara. Guarda che l’America non perdona, o sopravvivi o sprofondi! “
“Allora vorrà dire che non mi fermerò a lungo in America”
Maria scoppia in una risata tanto forte da far voltare mezzo aereo.
“Si può sapere perché ridi, io sto parlando seriamente, lo sto facendo cazzo! “
“Non ti offendere, semplicemente sei un pazzo, il modo in cui ti stai facendo scivolare adosso la cosa mi fa impazzire, sembra che neanche tu ti stia rendendo conto della follia che stai facendo.“
“No, forse no. “
Incomincia un film, mi metto le cuffie e provo a seguirlo, ma presto mi addormento.
Maria mi sveglia proprio mentre l’hostess sta annunciando di allacciarsi le cinture di sicurezza perché stiamo atterrando all’ aereoporto “Newark”, che sono le ore 13.40 “ora americana” e che ripartiremo per Houston alle ore 15.10. Guardo fuori dal finestrino e sotto di me scorgo New York, cazzo non ci sono mai stato, dall’alto non sembra certo quella città gigantesca e caotica che tutti i telefilm americani disegnano.
Maria mi guarda e mi dice che sembro un bambino che scarta per la prima volta il suo primo regalo, ed effettivamente devo avere un’ espessione a dir poco allibita. Il contatto con il suolo non è stato dei migliori, ma tutto sommato non posso affermare con certezza neanche questo, mi sento come un cucciolo nei suoi primi mesi di vita, che ad osservarlo bene si può notare quanto per lui sia tutto così nuovo.
Appena usciti dallo sbarco mi sento assalire da quello slang americano che solo nei film non doppiati avevo già sentito, voglio dire: io nella mia testa avevo pronte tutte le mia frasette che la Prof. di Inglese ci aveva insegnato, ma qui non si riesce nemmeno a distinguere le parole che pronunciano, figuriamoci tradurle. Noto la famigliarità con cui Maria si destreggia in questo posto, evidentemenmte deve essere piuttosto abituata a questo viaggio, la osservo mentre parla un perfetto americano con la barista e ordina fetta di Cheese Cake per lei e…
“Vladi cosa vuoi? ”
“Un caffè grazie”
“Ne rimmarrai deluso“
… e un caffè per me. Assaggio il mio caffè e devo dar ragione a Maria: è qualcosa di imbevibile; le chiedo se non si possa fare un giro per la “Grande Mela” mentre aspettiamo l’ora della ripartenza, ma lei mi spiega che in così poco tempo non si riuscirebbe nemmeno ad uscire dall’aereoporto ed aggiunge:
“Guarda che qui non siamo in Italia, qui c’è il traffico, quello vero”.
Incomincia a darmi seriamente fastidio quest’aria da donna vissuta che deve insegnarmi a sopravivere.
La lascio parlare di non so bene quante altre cose senza nemmeno ascoltarla e mi perdo a fissare e scrutare le diversità della gente. Qui, in questo aereoporto, ci sono persone di ogni nazionalità che vanno e che vengono, ognuna con la sua storia e la sua vita. Chissà per quanti diversi motivi la gente si trova a prendere un aereo; mi piacerebbe poterli intervistare tutti e chiedergli di raccontarmi un pezzetto della loro storia.
Una voce annuncia la ripartenza del nostro volo, io faccio un salto rapido al Duty Free a comprare una stecca di Marlboro, ammetto di aver dovuto chiedere a Maria come si dice stecca in americano, e già che ero lì e che mi ci è caduto sopra l’occhio, ho preso anche un dizionaretto tascabile, che può venire utile, anzi direi che sarà più utile di ogni altra cosa.
Durante il resto del volo chiedo a Maria di indicarmi qualche posto da poter vedere ed una buona locanda dove poter dormire. Lei insiste perché io mi fermi a dormire da lei, dicendomi che suo marito lavora in una grande software house e che si possono permettere una bella villetta con la camera per gli ospiti. Rifiuto insindacabilmente il suo invito, anche se la sua presenza come guida e traduttrice mi avrebbe fatto comodo, ma non lo ammetterei neanche morto.
Un po’ dormendo, un po’ chiaccherando ed un po’ ascoltando buona musica nel mio walkman, il volo passa ed arriviamo presto al George Bush Intercontinental Airport di Houston.
Appena scesi dall’aereo mi trovo di fronte ad un aereoporto molto diverso da come me lo aspettavo, non molto diverso da quello di Genova: lunghi pannelli grigi si alternano con colonne dello stesso colore, il tutto spezzato da inserimenti pubblicitari, passamano e porte di colore rosso.
Maria trova subito suo marito che mi presenta; si chiama James, un uomo sulla quarantina già brizzolato, con occhiali a montatura sottile su lenti spesse come fondi di bottiglia, vestito nel più classico dei modi: giacca di velluto con capuccio e pelo interno, maglione, jeans. Il classico babbo informatico, quello che ad avercelo avuto a scuola nel banco davanti l’avrei preso a miccellate nelle orecchie tutto il giorno.
Maria si sincera che realmente io non voglia fermarmi da lei e si congeda, lasciandomi lì da solo. A dirla tutta mi sento un po’ invaso da un leggero filo di panico, era molto più facile farle fare a Luigi queste cose che farle realmente, mi faccio forza e vado a cambiare un po’ di   dollari, mi soffermo di fronte alla vetrina del Duty Free ed esco. Appena fuori dall’aereoporto mi accorgo di come la temperatura sia diversa, fa molto più freddo ma lo si sente sicuramente meno. Riesco senza fatica a trovare il parcheggio dei taxi, salgo sul primo e gli chiedo in un pessimo inglese di portarmi al “Sara's Bed & Breakfast Inn” al 941 di Heights Boulevard, locanda consigliatami da Maria. Il tassista impiega molto tempo per arrivare a destinazione ed io non riesco a capire se ha fatto il giro più lungo possibile per spennarmi o se il posto era davvero lontano, ma in ogni caso, la cosa non mi dispiace, perché così ho il tempo di dare un’ occhiata alla città, che vista attraverso il finestrino non sembra così complessa e pericolosa come Maria ha voluto dirmi; sicuramente ci sono molti più vagabondi che nei vicoli di Genova.
L’albergo visto da fuori è davvero bello, è una casa in stile fattoria della favole, il tassista mi lascia di fronte alla porta di ingresso, si prende trentacinque dollari e se ne va augurandomi “good luck”; devo avercelo scritto in faccia che sono spaesato come un pulcino bagnato in mezzo al bosco.
UNDICESIMO LIVELLO



Tiro un sospiro, mi guardo un po’ intorno e suono il campanello. Viene ad aprirmi una ragazza bionda che dall’ aspetto sembra decisamente più tedesca che americana, non saprei dire se carina o no. Riesco a spiegarle, coadiuvato dal mio dizionaretto, che avrei bisogno di una stanza e lei mi consiglia la: Fort Worth Room che ha, addirittura: la televisione, il bagno privato e il King size bed che non so cosa sia, il tutto per soli novantacinque dollari a notte.
Sticazzi, mi sa che Maria o mi ha preso per il culo oppure mi ha preso troppo sul serio quando le ho detto che non dovrei avere problemi di soldi.
Comunque sia non posso fare altro che accettare e farmi accompagnare in stanza. La Fort Worth Room è davvero molto bella: le sponde del letto sono in massiccio legno chiaro incastrate tipo recinto, sopra quella che dovrebbe essere la spalliera vi è appeso un vero lazo e tutto il resto dell’arredamento è in stile. Il letto è gigantesco, la televisione sarà un buon ventotto pollici ed il bagno incantevolmente pulito. Lascio due dollari di mancia alla ragazza che mi ha accompagnato, molto più brutta di quella che mi ha accolto; tiro fuori dalla valigia l’occorrente per una doccia e mi tuffo nella suddetta, scoprendo con gioia che ha anche un sistema di idromassaggio; l’America mi è già più simpatica. Finita la doccia mi accorgo che si sono fatte quasi le dieci di sera. Mi infilo in letto distrutto dal viaggio e dalle emozioni. Nonostante provi a riflettere sul mio folle gesto mi addormento quasi subito.
Ore 9.50: la luce, che già da tempo, insiste per entrare dalle quasi inutili persiane stile western, mi sveglia nel più dolce dei modi. Impiego qualche manciata di secondi per rendermi conto di dove sono. Mi alzo, mi trascino verso il bagno e compio i miei consueti gesti rituali; apro la finestra della camera e scopro che è una pessima giornata. Constatando che Houston, con il cielo nuvoloso è decisamente più tetra e triste, respingo a fatica la voglia di ributtarmi sotto le coperte, tanto più che tra pochi minuti dovrei lasciare la stanza. Mi vesto velocemente e scendo nella hall, dove trovo dietro al bancone della reception, un uomo che credo sia il padre delle ragazze di ieri sera. Con il benefico aiuto del mio vocabolario e scoprendo con gioia che il mio interlocutore mastica un poco di italiano, mi accordo per tenere la camera ancora per una notte; ed avvisandolo che non usufruirò della colazione compresa nel prezzo lo prego di chiamarmi un taxi. Risalgo in stanza, mi armo di macchina fotografica digitale e  pc portatile (questi sono “attrezzi da lavoro” che mi sono stati prestati dalla ditta e che casualmente ho dimenticato di restituire).
Attendendo il taxi nella hall, provo a tradurre quello che i clienti dicono con il personale, tanto per fare un po’ di pratica con la lingua, ma ad essere sincero ci capisco ben poco.
Il tassista è un tipo simpatico, di poche parole ma simpatico; capisce subito che non comprendo molto della sua lingua e credo che in un certo senso mi prenda anche un pochino per il culo per questo. Comunque sono riuscito a fargli capire di portarmi in centro città.
Il centro di Houston è esattamente la fotocopia delle grandi città americane che vediamo nei film, manca solo il fumo che esce dai tombini; non ho mai capito perché nei film americani c’è il fumo che esce dai tombini. Comunque sia il paesaggio è molto diverso dal nostro, sicuramente più caotico e frenetico. Passeggio un po’ a zonzo, senza una meta ben precisa, senza sapere se, e cosa c’è di bello da vedere in questa città, ma sinceramente non m’interessa nemmeno molto fare il turista; sentirmi finalmente estraneo e non nauseato dalle solite cose mi appaga già a sufficienza. Vedere cose nuove come cartelloni pubblicitari animati tipo video musicale e fatti interamente di fibra ottica è già abbastanza scenico.
Passeggiando m’imbatto in un parco, credo che sia il parco centrale della città: una grande pista per fare footing lo circonda, laghetti e campi da pallacanestro ovunque, chioschi e carretti vendono ogni genere di cibarie: fish & chips, hot dog, bacon eggs, apple pie, cheese cake e molte altre cose che nemmeno riesco a pronunciare, figuriamoci a mangiarle.
Mi siedo su di una panchina, ben distante dalle altre occupate da vagabondi e barboni, ma molto vicino ai viali centrali. Questa non è una forma di razzismo, ma di paura, non nego di essere spaventato da questo mondo così diverso dal mio, dove tutti sono a casa e sono perfettamente coscenti della situazione; tutti tranne me. Accendo il mio portatile e scarico le foto che ho scattato girovagando; sono estremamente tentato di mandare una mail a qualcuno che conosco raccontandogli cosa sto facendo e come lo sto facendo, ma mi rendo conto senza doverci pensare troppo che sarebbe stupido ed inutile.Fumo un paio di sigarette e ne offro altre quattro ad un gruppo di ragazzini che credo abbiano bossato la scuola. Lo stomaco borbotta, è ora di pranzo, mi reco ad uno dei chioschi e mi sforzo di assaggiare un hot dog che a vederlo non fa certo venire voglia di mangiarlo e preso da una strana forma di masochismo mi compro un pacchetto di Fish & Chips per la cena. Il mio bisogno del caffè dopo pasto mi spinge fuori dal parco, in un bar dove non c’è molta gente: io, un paio di poliziotti, un tipo vestito bene direi un manager o roba simile e due ragazzi della mia età che si infilano le mani ovunque seduti nell’angolo più imboscato del bar.
Il caffè è forse peggio di quello bevuto in aereoporto a New York, credo che rimpiangerò parecchio l’espresso italiano; questa brodaglia servita nelle brocche non ha neanche il nome del nostro caffè, qua lo servono con una effe e senza accento.
Uno dei due sbirri, dopo avermi osservato per tutto il tempo che sono stato seduto al tavolino, si alza e viene  da me, mi fissa con l’aria da sceriffo americano e parlando nello slang più stretto per non farmi capire,  mi chiede di dove sono, qual’ è il mio nome e cosa ci faccio in america. Raccolgo tutta la calma che possiedo, si dice che gli sbirri da queste parti non vadano tanto per il sottile, gli do’ il passaporto di Strappa e gli dico che sono un semplice turista.
Il suo compare si alza e si porta subito al fianco dello sbirro che mi sta di fronte; mi chiedono di appoggiare le mani sul vetro alle mie spalle e di allargare le gambe per una perquisa.
UAAOOO, proprio come in un film poliziesco, che sballo, neanche due giorni che sono in America e sono già protagonista di una delle scene più famose di questo paese, se mi fermassi un mesetto potrei far sfigurare Al Capone!
Comunque la perquisizione non da i frutti sperati dagli sbirri e sono costretti a restituirmi il passaporto ed andarsene con le orecchie basse e la coda in mezzo alle gambe.
Esco anch’io dal bar, e mi rimetto in cammino, cercando di trovare un vigile (esisteranno qua?) o comunque qualcuno che mi possa indicare la strada per il Terminal Bus, praticamente, per il capolinea dei Lazi. Passeggiando per la nona strada incappo in un negozietto che vende fra le altre cose anche delle guide turistiche con relativa cartina della città. Appena entrato mi accorgo di essere finito in uno di quei posti dove i ladri vanno a rivendersi la roba o dove i poveracci si vendono quel poco oro di famiglia per racimolare qualche dollaro; sono entrato da un ricettattore! Il tipo dietro al bancone, uno sulla quarantina molto grasso e con dei piccoli baffi che accentuano la rotondità del suo viso, vestito con un golf a V che neanche gli copre per intero la pancia, si stupisce parecchio nel sapere che volevo veramente una di quelle cartine. Dopo averla presa in vetrina ed avergli tolto da sopra un due dita abbondanti di polvere prova a rivendermela per venticinque dollari. Eh no, bello non sono mica un turista vero io, non ho nessuna intenzione di fare la parte del pollo che compra e fotografa qualunque americanata! Dibbattendo un po’ sul prezzo, per quanto mi sia possibile in questa lingua, non ne ho ricavato un granchè, ma nel frattempo è entrato un tipo che deve vendere qualche cosa di losco. Il grassone non mi considera più e si precipita a servire l’altro cliente lasciandomi la cartina sotto il naso. Non mi è molto difficile individuare il Terminal Bus e scoprire che si trova in Garden Street. Esco facendo finta di non essere più interessato all’acquisto, ma il tipo neanche se ne accorge.
Coglione, avrei anche potuto prendermela quella cartina. Percorro tutta la via sino ad arrivare al prossimo incrocio, dove incontro un tipo in divisa; non è uno sbirro ma credo che sia la versione americana dei nostri vigili, allora forse esistono anche qua; chissà se sono inutili come quelli italiani!
Appena gli chiedo dove si trova Garden Street questo si lascia scappare un ghigno come se spiegarmelo fosse la cosa più impossibile e lui fosse consapevole che non la troverò mai quella malefica strada; invece, con mia grande soddisfazione, riesco a tradurre abbastanza bene le sue informazioni; e anche se capisco che sarà una lunga passeggiata m’incammino nella direzione spiegatami. Mi resta il dubbio di che cazzo aveva tanto da sghignazzare. Passeggiando mi accorgo che Houston è una città piuttosto banale, tutta uguale, grigia, triste, monotona, una palla insomma. Non è che io mi aspettassi chissà che cosa, però se prendiamo le nostre città sono più interessanti. Bologna ad esempio, ha tutte le sue cosine a posto, ha le torri degli Asinelli sotto le quali ti puoi dare un appuntamento sentendoti almeno un poco protagonista di Jack Frusciante è uscito dal gruppo, le vie lastricate in porfido con tutti i suoi portici,il Link e tutti gli altri Centri Sociali, le maxi feste dell’unità, il capodanno in piazza, il carnevale esagerato, è una città caratteristica! Qui ovunque vai è tutto perennemente uguale, barboni, poliziotti, asfalto, palazzoni grigi, gente che corre… CHE PALLA!
Impiego quasi due ore ad arrivare al Terminal Bus; chissà perché questa via si chiama Garden Street, non c’è un fiore a pagarlo oro!
Dopo una doverosa sosta al bar assaggiando un pessimo liquore dallo strano nome m’interesso subito alle partenze ed ai relativi orari.
Mi cade l’occhio sulla corriera “671” diretta a Brownsville, prima partenza  prevista per domani mattina ore nove e trenta: CI SARO’!
Esco dal Terminal, fermo un taxi, altro gesto americano che ho sempre sognato di fare, e mi faccio riportare al Sara's Bed and Breakfast. Trascorro quel poco tempo che manca alla cena nella hall dell’ albergo, conoscendo finalmente la famosa Sara e provando a fare due chiacchere con lei, ma la cosa non mi è riuscita molto bene. Sara, una donna sulla quarantina, madre delle due ragazze di ieri sera, non molto bella, vedova da dodici anni e tra l’altro simpaticissima, si accorge del mio programma per la cena e quasi schifata mi obbliga a buttare i miei Fish & Chips ed unirmi a loro!
Una cena frugale ma con cibi costosi, degna della casa che ci sta ospitando ed almeno in parte del viaggio che sto facendo. Le due ragazze si divorano letteralmente le grigliate di carne e la purea di patate novelle lasciandomene solo un assaggio, la madre preferisce delle verdure miste assortite, io poco di tutto. Appena finito di mangiare e di ingerire quella sottospecie di caffè malfatto, Sara si alza da tavola, annunciando di avere una sorpresa per me. Apre un’anta della credenza in stile ed i miei occhi s’illuminano alla sola visione di quel ben di Dio che ormai pensavo di non poter più assaporare. Grappa Italiana di moscato. IMMENSA GIOIA! Sara stappa la bottiglia dicendo che se l’era dimenticata qui un cliente italiano qualche anno fa e che lei non beve molto. Lei no, ma io sì! Piatto ricco mi ci ficco!
E così un po’ chiaccherando, che annebbiato dai fumi del buon vitigno mi vengono anche meglio i discorsi in americano, ed un po’ fumando passiamo la serata tutti e quattro divertendoci e raccontandoci un po’ di tutto sulle nostre rispettive nazioni. Jenny , la figlia più piccola di Sara, ha provato a chiedermi almeno cinque volte il perché del mio viaggio in America, ma io ho sempre sviato l’argomento, anche perché nella sua lingua mi sarebbe riuscito difficile esprimere un concetto che già faccio fatica a spiegare in italiano; così Jenny ha tagliato dicendomi che noi italiani siamo sempre così misteriosi. Ho passato una buona parte della serata tentando di estirpare il loro concetto di:
“italiano=spaghetti,mandolino,pizza,mafia” ma non credo di esserci riuscito molto bene; anzi avendogli svuotato quasi tutta la bottiglia devo aver modificato la loro idea in:
“italiano=alcolizzato,asciugagrappe”.
Si è fatto molto tardi e le due sono già passate da un pezzo quando io ubriaco del tutto me ne vado in stanza a dormire, mentre Sara e le sue figlie ubriache per metà o poco più; salutano il portiere di notte e si recano nell’ufficio dell’albergo per non so bene quale motivo.
Ore otto in punto:
la sveglia del telefono, più irritante di un Tamagochi, mi strappa dai miei sogni.
Mi preparo velocemente, infilo nel mio vecchio zaino ex scout quel poco che avevo tolto, ripongo accuratamente il pc e la macchina fotografica nella loro valigetta da viaggio e vado ad usufruire della mia “breackfast” .
Di Sara e delle sue figlie neanche l’ombra, nella hall c’è nuovamente il signore di ieri mattina, mentre nella sala da pranzo, un ragazzino poco più che quindicenne mi serve del pane tostato con uova e bacon. Faccio molta fatica a degluttire roba simile a quest’ora di mattina, ma non so assolutamente come sarà il viaggio che mi aspetta e quindi meglio eliminare in partenza il problema cibo.
Nel frattempo arriva Sara che mi chiede dove sono diretto e dopo aver confabulato con il tipo della hall mi dice che se voglio mi accompagna lui al terminal bus. Io provo a insistere che non è il caso, che prendo un taxi, ma alla fine mi ritrovo in macchina a scroccare il passaggio e risparmiare qualche dollaro.
Arrivati al Terminal io scendo al volo ma il tipo mi chiama:
“Hey Vladimiro!! “
“Tell me”
E col pugno chiuso ed il pollice alzato: “Good lucky boy“
Non sapendo come si dice “crepi il lupo” in americano mi limito a sorridergli e restituirgli il gesto.











 
DODICESIMO LIVELLO



Appena entrato nel Terminal mi metto in coda per il biglietto, ovunque la stessa storia.
Dopo circa quindici minuti viene il mio turno, l’impiegato della biglietteria, un uomo di colore di circa cinquant’anni, finge di non capire il mio inglese e si diverte un po’ con me e solo quando la gente in coda inizia a scaldarsi ed a difendermi, riesco ad avere il mio biglietto. Ancora una volta il passaporto di Strappa ha funzionato.
Nella sala d’attesa, o meglio in quell’amasso di panchine fredde che osano chiamare sala d’attesa, trovo un volantino su Brownsville:

“Venite a scoprire Brownsville!
Bagnata dalla foce del delta del Rio Grande, Brownsville è una destinazione perfetta, con il Messico a due passi e  le spiagge del golfo vicine. Troverete il fascino mistico culturale del sud-ovest ed il miglior clima  del Texas”

Beh, non è certo la miglior presentazione che abbia letto ma è decisamente molto invitante.
Mentre aspetto di poter salire sulla mia corriera, giochicchio con il biglietto e mi cade l’occhio sulla tariffa kilometrica: Houston – Brownsville: 352 miglia!
CAZZO, se lo sapevo sceglievo un’ altra meta, o perlomeno spezzavo il viaggio in più tappe; ma comunque sia ormai ho pagato, caro, il biglietto e me lo sfrutto fino in fondo.
Appena il bus apre le porte io ed i miei momentanei compagni di viaggio ci amassiamo peggio che ad un concerto. Appena salito sulla corriera cerco di trovarmi un posto comodo ed un decente compagno di viaggio. Devo scegliere fra le persone che hanno lasciato un posto libero nei sedili destinati a due viaggiatori, perché occuparne uno vuoto significherebbe lasciare agli altri la facoltà di scegliermi, mentre voglio essere io a decidere con chi viaggiare. Con una rapida occhiata, scartando le persone di taglia extra large, quelle non troppo pulite e quelle con troppi bagagli, non mi resta che scegliere fra: un signore che ha tutto del commesso viaggiatore, troppo serio finirebbe per studiare qualche listino o scrivere chissachè su qualche strana agenda;
un prete, potrebbe essere un buon interlocutore ma non è prorpio un momento da discorsi mistici, e poi come dicono i 99Posse “non parlerò di Dio con chi sostiene una religione”;
una ragazza che oltre a non essere bella ha già iniziato ad allargarsi sull’altro sedile, la getterei dal finestrino chiuso, che già sarebbe difficile farcela passare se fosse aperto;
ed una ragazzina sui sedici anni che non capisco come possa fare un viaggio tanto lungo da sola. Sceglierò lei.
Posiziono il mio zaino nello scomparto sopra i sedili e sfoggiando il mio miglior sorriso:
“E’ libero vero? “
“Sì, è libero, fai pure”
Mi siedo
“What’s your name? ”
“My name is Marlene”
 Etc etc, lei si chiama Marlene, non ha sedici anni ma bensì ventiquattro, è più carina di quanto mi fosse sembrato, ha sicuramente un bel viso ed un discreto seno; veste abiti piuttosto leggeri per questo periodo dell’anno: serafino grigia sotto una camicetta aperta, pantaloni bianchi trasparenti quasi estivi e direi (ma non posso affermarlo con certezza visto che è seduta) perizoma. Ha una lunga e folta coda di capelli biondi che s’intrufola fra le sue spalle ed il sedile, dalla quale lascia liberi solo due ciuffetti che le scendono lungo il viso. E’ diretta a Brownsville per un colloquio di lavoro.
L’autista annuncia la partenza ed avverte che l’arrivo è previsto per le ore ventitrè e trenta e che l’autobus farà tre soste durante il viaggio, una a pranzo, una a metà pomeriggio ed una a cena.
Marlene si mette a ridere quando le chiedo di ripetermi lentamente ciò che l’autista ha detto. Beh, un modo un po’ buffo per rompere il ghiaccio ma ce l’abbiamo fatta e la prima ad intavolare un discorso è proprio lei:
“E tu come mai su questo bus? ”
E qua sfoggio tutte le mie conoscenze d’inglese per provare a spiegarglielo:
“Beh, vedi io sto fuggendo”
“Sei ricercato in Italia? “
“No, ricercato no, forse dal mio principale per uccidermi, ma non certo dalla polizia, io fuggo dalla mentalità italiana troppo ristretta per viverci dentro e troppo aperta per modificarla, io sostanzialmente mi allontano in una direzione non bene specificata solo per lasciarmi alle spalle quello che fin troppo bene conosco: lo sfruttamento sul lavoro, l’inspiegabile appiccicosità delle persone, l’ipocrisia, le maldicenze e comunque da tutto quello che mi ha riguardato e raggiunto fino a ieri. Cerco solo di farmi una nuova vita, diversa, più sana, più sincera, più reale, meno assillante e soprattutto più lenta” .
“E pensi di farlo a Brownsville tutto questo? Non credo che sia una città troppo diversa da quelle italiane”.
“No, Brownsville è solo un punto di passaggio, un intermezzo fra ieri e domani, non so dove e se smetterò di viaggiare, non so se mi fermerò in un posto e cosa farò una volta arrivato, per il momento vado, dove non lo so ancora”
“Sai io in fondo ti stimo, vorrei averlo il coraggio di fare una cosa del genere, anche io non sono affatto soddisfatta della mia vita e vorrei avere le palle per andarmene, ma non solo non ho il coraggio, ma non ho neanche  i soldi”
“Beh, per il coraggio… è il raptus di un momento, se te lo programmi non lo fai, mentre per i soldi se non vuoi viaggiare e vivere da punk-a-bestia, effettivamente qualcosa da sputtanarti devi avere. “
“Ma un giorno ci riuscirò, lo so che ce la farò, ed allora ti verrò a cercare.”
Estrae un libro da uno zainetto di jeans e si mette a leggere, io metto le auricolari del walkman alle orecchie e mi abbandono sul sedile cullato dalle note Ska di “Balla e difendi” un classico.
Dopo un po’ lei mi bussa sulla spalla e mi toglie un auricolare:
“Ma voi italiani sentite sempre la musica a questo volume?  Senti ti dispiace se dormo un pochino? “
“No figurati, perché dovrebbe, fai pure”
Ranicchia le gambe sul sedile, alza il bracciolo che separa i due posti ed appoggia la testa sulla mia spalla.
Ora, io non so queste americane che usanze abbiano, ma noi italiani su un gesto simile ci fantastichiamo su un mezzo film porno. E ora che faccio? Boh, io provo ad abbracciarla in modo disinvolto da far sembrare che sia una comodità per la posizione e poi vediamo che succede.
Dorme davvero! Che sfiga! Niente porno! E russa pure! Ci manca solo che mentre dorme le si apra la bocca e che sbavucchi un pochino e siamo a posto.
Provo a dormicchiare un po’ anche io ma non ci riesco, vorrei cambiare il cd nel walkman ma ho paura di svegliare Marlene, mi vengono i crampi se non cambio posizione, questa dorme da più di due ore! AIUTO!
Ore tredici il bus si ferma in una specie di autogrill in mezzo ad un deserto che in confronto la nostra Pianura Padana sembra montuosa, io sveglio Marlene e riesco finalmente a liberare il braccio che non sentivo più e che adesso mi formicola in modo fastidiosissimo.
“Ma che ora è? Quanto ho dormito? “
“E’ l’ora di pranzo, hai dormito tre ore”
“Ho una fame pazzesca”
“Anch’io, andiamo”
Il posto è il più classico degli autogrill americani, mi ricorda quello del film “Brivido” con il tipo che cuoce gli Hamburgher su una piatra bene in vista ed un mare di camionisti che fanno un gran casino e s’ingozzano da fare schifo. Io non capisco quasi nulla di quello che la cameriera ci spiega come menù, allora Marlene mi chiede se mi fido ed io la lascio fare.
Pochi minuti dopo la cameriera torna con due piatti di salsicce, wurstel e patatine. Marlene ricopre il tutto con un fiume di ketchup, forse era meglio se ordinavo a caso.
Mentre mangiamo lei mi racconta un pochino della sua storia, di come il fato le abbia fatto presto capire la differenza fra una favola e la vita.  Una ragazza sostanzialmente fragile, impaurita ma determinata, cresciuta senza mamma e con l’eterno chiodo fisso di trovare un ragazzo premuroso che le funga anche da sostituto del padre tiranno e severo, ricerca che classicamente sfocia sempre invano. Mi da un po’ l’idea di essere una persona che sta ancora cercando un qualcosa che la lasci crescere liberamente e che le restituisca quelle pazzie giovanili che la vita non le ha mai concesso. La ritrovo molto in alcune parole di Guccini:
“Con l’illusione pronta per l’uso da eterna vittima di un sopruso, abuso di un mondo chiuso e fatalità” e mi sembra che abbia voglia di gridare al mondo di lasciarla stare e che:
“Ognuno vada dove vuole andare, ognuno invecchi come gli pare, ma non raccontare a me che cos’è la libertà”
Finito il pranzo si riparte; il resto del viaggio si consuma più o meno velocemente, fra due chiacchere con Marlene ed un paio di altre soste non molto differenti dalla prima. Arriviamo al Terminal Bus di Brownsville a mezzanotte passata, quando appena scesi dal Pulman Marlene mi chiede:
“E adesso che fai? Come ti organizzi il resto del tuo viaggio? “
“E che ne so io! Mi cercherò un alberghetto dove dormire e poi domani vedremo”
“Beh, io mi fermo a dormire qui, se non ti fa troppo schifo puoi tenermi compagnia”
“In che senso ti fermi qui? “
“Qui, nella sala d’attesa, domattina ho il colloquio alle nove e non mi posso certo permettere un albergo, se mi fai compagnia mi passa di più”
“La sala d’attesa non è il massimo delle mie aspirazioni, ma dopotutto sto facendo una follia, facciamola fino in fondo! “
La sala d’attesa è molto meglio di quanto immaginassi, perlomeno è pulita e non c’è nessuno. Marlene stende un sacco a pelo estivo fra due panchine in modo da essere il più riparata possibile e mi chiede se voglio condividerlo con lei. Non ho molte altre possibilità visto che non sono assolutamente attrezzato per dormire all’ adiaccio.
Mi stendo al suo fianco e mi metto sotto la testa la valigetta contenente il pc e la macchina fotografica.
Lei si ranicchia un po’ ed appoggia la testa sul mio petto, poi mi chiede:
“Cos’hai in quella borsa, la custodisci come se ci fossero dei milioni di dollari in contanti”
“No, niente soldi, solo un portatile ed una macchina digitale”
“Cosa??? Hai un portatile e non mi dici niente? “
Schizza in piedi e mi tira per un braccio dicendomi che andiamo a connetterci.
Mi porta in una sala telefonica dove oltre ai normali telefoni pubblici, vi sono anche dei flat per pc che funzionano con delle banali tessere telefoniche che lei ha. Mi sento un troglodita!
Connetto il pc e lei mi fa subito vedere il sito dell’azienda dove domattina sosterrà il colloquio; è molto sicura ne parla come se già ci lavorasse.
E navigando, navigando mi convince a mandare una mail ai miei genitori per rassicurarli sulla mia salute.
Naturalmente i miei genitori non sono molto pratici di informatica e di certo non utilizzano la posta elettronica; così sono costretto a mandare la lettera a Miriam, pregandola di stampare il tutto e di farla pervenire ai miei.

Ciao Mi, come te la passi con il Boss?
Spero bene e non lo dico per gentilezza o convenienza, lo penso davvero. Come ben saprai, suppongo che la voce si sia sparsa alla svelta, io non sono più in Italia, ho preferito allontanarmi per un po’, non so ancora bene per quanto tempo, ma diciamo che starò via il tempo che mi servirà per ritrovare almeno una parte dello spirito che una volta avevo, e che tu allora conoscevi bene e forse stimavi. Sai che ultimamente stavo molto stretto nel ruolo che interpretavo e che non sarei resistito a lungo vestendomi da me stesso; come sai che forse l’unico legame che mi teneva ancora ancorato  a quella vita eri tu. Ora che tu non fai più parte del mio tempo, ma sei un passato da dimenticare alla svelta, non avevo più ragioni di martoriarmi a lungo, continuando a vivere in un aspetto non mio, che mi ero costruito forse per convenienza, o per illudere me stesso che anticipando quel cambiamento che sarebbe comunque arrivato col tempo, l’avrei reso meno doloroso.
Questa lettera non è per nessun altro motivo, se non quello di chiederti di farmi da porta voce con i miei genitori, rassicurandoli e dicendogli che è tutto a posto e prima o poi, forse, troverò il coraggio per telefonargli.
So che mi farai questo favore, quindi grazie anticipatamente . VLADI.

Marlene, che conosce un poco dìitaliano, mi chiede qualche spiegazione su Miriam e sembra sinceramente interessata quando le parlo di Mi, di Ale o del signor Fantoni e quando in pratica le spiego le vere cause del mio espatrio. Lei continua a fare segno di sì con la testa e quando ho finito ribadisce che mi stima e che vorrebbe solo avere il coraggio di fare lei quello che sto facendo io e che tutto sommato non un è gesto poi così folle, ma lo trova quasi naturale; dice che secondo lei la razza umana evolvendosi si è imprigionata da sola e si è costruita attorno ancore dalle quali non può più staccarsi, ma che per natura noi saremmo molto più libertini di quanto ci obblighiamo ad essere.
Non posso fare altro che darle ragione.
Resta molto incuriosita quando dalla barra di avvio apro esegui e digito c:\the black ship\ start.exe
Le spiego che quella che stò per farle vedere è la prima relise del mio gioco e che il prodotto finale è molto diverso e sicuramente più curato, ma questa basta comunque per farle capire il tipo di gioco che è.
“Vedi The black ship è un gioco della nuova generazione, dove non sei obbligata a seguire dei percorsi o delle storie già inventate, ma puoi creare tu il gioco stesso, la storia, i personaggi che ruotano attorno al protagonista, vestirli, dargli un nome, un’identità. Questo chiaramente ha fatto sì che la grafica ne risentisse un po’ ma sicuramente ha reso il gioco molto diverso da tutti gli altri. Ogni volta che sbagli puoi riniziare provando un’altra storia, un’altra avventura ambientatata in epoche diverse o in luoghi diversi, l’unico scopo è quello di dare a Luigi, il protagonista e l’unico su cui non hai potere di interagire, la possibilità di abbandonare la vecchia vita e di scappare lasciandosi tutto alle spalle creandosi un habitat più favorevole. “
“Proprio come stai facendo tu”
“Non nego che aver lavorato per molto tempo a questo progetto abbia scatenato in me l’affiorire di un’idea che forse già premeditavo, ma che non ho mai avuto il coraggio di mettere a fuoco. Forse sono riuscito a creare questo gioco proprio perché ho lasciato che i miei desideri si materializzassero, generando una realtà virtuale dove io stesso mio sono rifugiato per molto tempo.”
“Posso provare? “
“Certo”
E dopo circa due ore di gioco, durante le quali io un po’ ho dormicchiato ed un po’ ho osservato le scelte di Marlene, lei si degna di esprimere un giudizio:
“E’ stupendo, è un gioco bellissimo, ti fa sfogare! E’ stupendo, ma in Italia è andato forte vero? “
“Non lo so, sono scappato la mattina della presentazione ufficiale alla stampa”
“Sei un pazzo, secondo me sarebbe stato un successone”
“Boh, non lo so, e sinceramente non mi interessa molto, non più ormai. Io torno in sala d’aspetto che sto cascando dal sonno, quando hai finito spegni il pc ed imboscalo in posto sicuro che non vorrei che me lo facessero saltare. Buonanotte”
“Good Night”
La luce del giorno ed il brusio della gente che affolla il Terminal fanno sì che io mi svegli e che mi accorga che Marlene non c’è. Il primo impulso è quello di controllare il pc e la macchina fotografica, quest’ultima non c’è.
CAZZO, mi ha fregato! Faccio su le mie cose alla svelta e mi precipito verso l’uscita sperando che Marlene sia andata davvero a quel colloquio e di poter quindi recuperare la mia macchina.
“Dove vai di corsa? “
Marlene con la mia macchina in mano.
“Ma cosa stai facendo?! “
“Sto scattando un paio di foto e mi stanno venendo anche bene perché? “
“Niente lascia perdere, andiamo fare colazione?”
“Non dirmi che hai pensato che ti avessi fregato!“
“Lascia stare davvero, sono stato uno stupido scusa, andiamo a far colazione? “
Lei si avvicina a poco più di un dito dal mio viso:
“Chiariamo questa cosa subito, io non sono certo una santerellina, ma certe infamate non le faccio, è chiaro!? Non a te perlomeno” E mi da un bacio veloce sulle labbra. “Ora andiamo a far colazione, offri tu! ”
Al bar lei ordina un the e da buona americana un toast con pancetta e uovo, mentre io mi limito ad un capuccino ed un kraphen accusando gravemente la nostalgia di quelle meravigliose e  fraganti strisce di focaccia che si trovano in tutti i bar di Genova. Mangiamo la nostra colazione quando mi s’illuminano gli occhi notando che dietro il banco del bar, in mezzo alle altre bottiglie, ce n’è una con una eticchetta gialla con su scritto: Oro de Oxaca Mezcal. La vicinanza col Messico si fa sentire. Sorseggio il mio mezcal sotto gli occhi schifati di Marlene che mi accusa di essere un alcolizzato, perché sostiene che solo loro bevono alla mattina presto.












 
TREDICESIMO LIVELLO



Verso le otto e trenta usciamo dal Terminal e lei si destreggia abilmente fra le strade di Brownsville, raggiungendo in pochi minuti la B.R.W. dove ha il colloquio.
“Ed io che faccio, ti aspetto qui? “
“Sì, non ci dovrei mettere molto, non ti far venire in mente di sparire ok? “
“E dove vuoi che vada? Ci vediamo dopo”
“Ok”
“Ehi Marlene… good luck”
Ma lei non risponde e prosegue la scalinata che porta all’interno dell’edificio alzando verso di me il pollice della mano destra. E così continuo a non sapere come si risponde in americano. Mentre sale le scale posso notare i suoi pantaloni bianchi e semi trasparenti farsi strada in mezzo al perizoma. Non nego che la ragazza inaspettatamente m’interessi.
Aspetto per più di due ore, fumando non so quante sigarette, che Marlene riappaia da quella porta a vetri e che entusiasta saltelli fino a me e che mi dica che l’hanno assunta e che presa dall’euforia mi dia un altro bacio; ed invece la vedo uscire con le orecchie basse e la coda in mezzo alle gambe, con un broncio che non ha bisogno di spiegazioni. Senza chiederle niente le cingo le spalle e la stringo forte, poi ci avviamo verso la strada.
Fermo il primo taxi e faccio salire Marlene che mi guarda stupita, dico al tassista di portarci in un luogo dove ci si possa divertire, ma lui finge di non capirmi ed allora Marlene gli ripete la stessa frase in slang piuttosto stretto e dal tono in cui l’ha sparato praticamente a fare in culo capisco che il suo umore è molto peggio di quanto credessi.
Quell’idiota del tassista ci porta al Gladys Porter Zoo al 500 di Ringgold Street, che non è esattamente il luogo che pensavamo noi, ma ce lo facciamo andare bene.
Marlene riesce a svagarsi ed a recuperare quanto basta del suo umore per non farmi passare una giornata del cazzo; così tra un gorilla ed un leone ci passiamo quasi allegramente il pomeriggio.
Alle diciannove circa, lei mi dice che deve tornare al terminal per prendere il bus che la riporterà a casa; che dovrà dire a suo padre che non l’hanno assunta e che lui s’incazzerà molto e che molto probabilmente la suonerà anche. Io non so sinceramente cosa dirle, ed anche se lo sapessi non lo saprei fare in inglese. L’unica cosa che riesco a dirle è di accompagnarmi in un albergo, così io mi posso prendere una stanza e lei si può fare una doccia al volo. Accetta.
Al Cameron Motor Hotel, un postaccio in 912 E di Washington Street, hanno una hall molto povera, anzi direi quasi che non c’è la hall. Il vecchietto che ti riceve farebbe fatica a sentire l’esplosione di una bomba, figuriamoci se riesce a capire quello che gli chiedo; così interviene nuovamente Marlene che con mio stupore chiede una camera doppia e guardandomi fisso negli occhi mi dice:
“Te l’ho detto che non sono un infame, non posso abbandonarti da solo in questo posto, non riusciresti nemmeno ad ordinare un caffè”
Le sorrido, afferro la chiave della stanza e le chiedo di farmi strada. La camera è molto povera, ma sufficentemente pulita, mentre Marlene è sotto la doccia io do una rapida occhiata ad una carta geografica che ho trovato in un comodino.
La sento chiudere l’acqua ed uscire dalla porta del bagno alle mie spalle:
“Che fai di bello?”
“Ma niente, davo un’ occhiata alla carta per vedere cosa c’è di bello vicino al Texas, se domani tu vai via io che ci sto a fare qui, mi sposterò anch’io.”
“Fammi un favore chiama la hall e chiedigli se mi portano degli asciugamani, che l’unico che c’è è così piccolo che non basterebbe ad un nano”
E la sento sdraiarsi sul letto acanto al mio.
“Sai, pensavo di andare a Città del Messico” e alzo la cornetta del telefono sul mio comodino.
“Come vuoi, tanto io non ti mollo”
“In che senso non mi molli” e per lo stupore mi volto di scatto e la vedo sdraiata sul letto con legato in vita un asciugamano che non le copre neanche il pube e lascia intravedere un po’ di pelo ed il seno completamente nudo appoggiato al corpo.
“Perché mi guardi così? Non hai mai visto una ragazza in topless? “
Non mi esce nessuna frase in inglese e resto lì a fissarla sbigottito come un bambino che per la prima volta leva gli slip alla fidanzatina. Dio che figura da babbo.
“Guarda che hai la chiamata aperta, digli degli asciugamani”
Mi volto, riprendo la cornetta e chiedo qualche asciugamano in più; lei nel frattempo si alza e ritorna in bagno. Bussa il tipo dell’albergo e mi passa gli asciugamani dalla porta che apro solo un pochino per evitare che possa vedere Marlene.
Appeno richiudo la porta lei ritorna nella stanza e si toglie quel piccolo pezzo di stoffa che a malapena le copriva quel poco folto cespuglietto riccio.
Io non le passo gli asciugamani e l’abbraccio provando a baciarla, ma lei si divincola, si copre e mi dice di non fraintenderla, di non farmi illusioni, perché anche se ha deciso di farmi da compagna di viaggio non vuol dire che mi voglia scopare. Non ancora penso fra me e me.
“E comunque che vuol dire esattamente che non mi molli?”
“Beh, mi hai convinto, questo tuo viaggio verso la pace assoluta dei sensi, verso qualcosa di nuovo e sconosciuto... mi hai convinto! Bisogna che lo faccia adesso, dopo tutto lo hai detto tu stesso che si tratta del raptus di un momento e che non bisogna rifletterci troppo! Vengo con te, ti seguo. Daccordo non ho molti soldi, ma se mostro un  po’ di tette la sera in qualche nigth, dovrei tirare su qualche dollaro, quanti bastano per iniziare “.
Ed intanto finisce di rivestirsi.
“L’ho già fatto molte altre volte in passato, quando ho bisogno di racimolare qualche soldo, mi infilo nel primo nigth che trovo e chiedo di potermi esibire la sera dopo. Fai vedere le tette a qualche vecchietto, li ecciti un po’, e senza fatica e senza doverti vendere del tutto riesci a tirare su anche duecento dollari, se gli spettatori sono generosi con le mance. In fondo sono una donna, sò bene come sfruttare il mio corpo”.
Mi sà che mi sono fatto un’idea non proprio corretta su Marlene, non è esattamente la brava ragazzina cresciuta a suon di pattoni ricevuti dal padre, penso che dovrò rivedere un pochino i miei piani. Per portarti a letto una così ti ci vuole un preservativo spesso almeno quanto un copertone da camion.










 
QUATTORDICESIMO LIVELLO


Sedici mesi dopo, ore undici, Porto Alegre, Brasile.
 
PORTO ALEGRE: città del Brasile sudorientale, capitale dello stato di Río Grande do Sul e porto situato all’estremità della Lago dos Patos, che si affaccia sull’oceano Atlantico. Situata alla confluenza di cinque fiumi, Porto Alegre è il più importante centro commerciale del Brasile a sud di São Paulo. Le attività economiche della città includono industrie alimentari, chimiche, meccaniche, conciarie, cantieri navali e manifatture tessili, mentre il porto, dotato di infrastrutture moderne, esporta principalmente prodotti agricoli e dell’allevamento. La città, servita da un aeroporto internazionale, è sede dell’università federale di Rio Grande do Sul e di un’università cattolica. Porto Alegre fu fondata intorno al 1742 da immigrati portoghesi provenienti dalle Azzorre. Abitanti: 1.263.239.

La semi relazione fra me e Marlene si è troncata quattro giorni fa’, quando lei dopo una folle notte al Theatro Sao Pedro (che a differenza di quanto il nome lasci immaginare, è una delle discoteche più trasgressive della città), ha deciso di mollarmi per continuare il viaggio con Habbib, un ragazzo molto benestante, di colore, che le ha promesso di portarla in Paraguay via mare, con il suo Yatch privato. Evidentemente non ho mai capito chi fosse e cosa volesse realmente Marlene. Ma forse questo è oscuro anche a lei.
Devo ammettere che la cosa mi ha fatto male, anche se ormai era già da tempo preannunciata. Da quando lei ha trovato un posto “fisso” come cubista in quel cazzo di locale merdoso, le cose si sono notevolmente incrinate; lei ha perso quella parte spontanea, quasi artistica e si è trasformata in un qualcosa di ben più triste. Ha incominciato a frequentare party con gente più o meno ricca, a parlare di cose che una volta avrebbe snobbato, a sorseggiare champagne offerto da ricconi, alternandolo a qualche tiro di bonza... in poche parole ha iniziato a trasformarsi in una puttana di lusso.
No, no, la mia non è gelosia, fra noi non c’è mai stato un rapporto fisso, nessuno dei due ha mai, neanche lontanamente pensato, di fare coppia fissa; però non mi sarei mai aspettato che mollasse tutto (me compreso) per infilarsi a capofitto in un mondo da cui stavamo fuggendo insieme!
Sì, è vero mi manca... Cazzo se mi manca, lei mi ha insegnato a destreggiarmi in mezzo agli americani ed al loro mondo, mi ha insegnato a parlare in modo meno goffo la loro strana lingua, assieme abbiamo imparato a conoscere il Brasile, lo spagnolo e la cultura brasiliana, che non si può certo dire assomigli alla nostra. Assieme abbiamo in parte ripulito le nostre menti e ci siamo cibati di questo nuovo mondo; abbiamo cercato di trovarne il cuore, l’anima e di addattarci a quella, farla nostra ed assaporarla fino in fondo; e in parte ci siamo riusciti.
Assieme siamo partiti da Brownsville per il Messico; abbiamo abitato il centro storico di Città del Messico, assieme abbiamo visto lo Zocalo, l'Avenida Maderno Juarez, il parco dell'Alameda, il Paseo de la Reforma/Parco Chapultepec, il Museo Antropologico, il Castello di Chapultepec. Assieme abbiamo vissuto ed abbiamo imparato il messico. Siamo passati dalla grande capitale a posti più vivibili e meno affollati: Aconcagua, Popocatépetl, abbiamo persino abitato una abbandonata capanna sul Kilimangiaro, dove entrambi abbiamo mangiato per la prima volta un pejote.
E poi via, di nuovo in una Capitale: Lima, la città dei Re con i suoi mille musei e la famosa Plaza de Armas.
Arequipa, "Ciudad Blanca", sempre in Perù, dove abbiamo fatto l’amore la prima volta con uno scenario da favola dato dal vulcano di lava bianca. Siamo stati ospitati nel Monastero di Santa Catalina, una sorta di città nella città, pieno di vicoli e casette, che in passato arrivò ad ospitare fino a 450 monache, ora specie di centro sociale per viandanti come noi.
Assieme abbiamo visto il Colca Canyon, il più profondo del mondo. E poi di nuovo in viaggio spensierati, forse in piccola parte innamorati, più di quello che stavamo facendo, consumando e condividendo assieme, che di noi stessi. E di nuovo altre emozioni, altre scoperte, altre novità: la Bolivia, La plaz dove all’aereoporto acquistando un giornale italiano ho scoperto che “The Black Ship” si è rivelato, in italia, il gioco dell’anno e che io sono stato così stronzo o così furbo da scendere da un treno in corsa, Tiahuanaco, Cocha Bamba, Oruro, Santa Cruz, Potosi e Sucre.
E ancora in movimento alla volta di Assuncion in Paraguay, posto maleddetto di cui lei si è innamorata.
Non posso certo darle torto: il  Paraguay conta con un territorio di 400.000 km2, all'incirca un terzo più grande dell'Italia e con una popolazione di 5.5 milioni di abitanti, quindi 10 volte meno dell'Italia, tutto questo  per farvi capire che la prima cosa che colpisce sono i grandi spazi. Nonostante sia molto distante dal mare è una vera oasi subtropicale, un posto che incanta.
La zona delle Pampas, il Chaco Boreal, i resti delle storiche "reducciones", il lago Ypacaraì e Capiatà, con la sua antica chiesa gesuita, il percorso fluviale in battello sul Rio Paraguay fino a Concepciòn a nord della capitale oppure, in alternativa, il tragitto più breve dalla capitale a Villeta in direzione sud. Le vaste distese del Chaco, le cascate di Iguaçù che si trovano tuttavia poco oltre il confine in Brasile. Tutti posti che effettivamente, se vissuti e non visti da semplici turisti lasciano un segno quasi indelebile nel prorpio io.
Ed infine Porto Alegre dove ci siamo fermati e dove abbiamo vissuto più a lungo.
Tutto quello che ho condiviso con Marlene non posso certo dimenticarlo in due minuti, non sarà certo questa nuova partenza, questa piccola fuga nella fuga a salvarmi. Dove sto andando di preciso non lo sò nemmeno io. Un’ altra volta parto, un’altra volta scappo, da cosa poi... Da un ricordo di momenti meravigliosi? Da una situazione che era diventata troppo simile a quella italiana? Da cosa me ne vado nuovamente?
Un’altra volta su un bus, ma adesso senza compagna di viaggio e con un senno di poi che mi spaventa. Mi chiedo se mai riuscirò veramente ad arrivare da qualche parte, a raggiungere un luogo, una meta o semplicemente un condizione mentale appagante. Mi chiedo se è quello che mi sta intorno che non riesce a funzionare per sempre o se sono io che mi abituo troppo facilmente a quello che mi sta intorno, privandomi così di quell’entusiasmo che solo l’incognito mi sà dare!
Mi chiedo dove e come sbaglio e sopratutto mi chiedo perchè sbaglio! Sembra tutto così facile, così semplice, sembra che tutto ti stia andando nel migliore dei modi, quando tutto ti crolla adosso!
E ora mi aspetta Cumuruxatiba, che spero sappia ridarmi almeno metà dell’entusiasmo che avevo quel giorno in aereoporto a Milano.
Ma forse non è tanto il luogo a non darmi più certi stimoli quanto la mia condizione di vita, che anche senza che io me ne possa accorgere, si è già addatata, almeno in parte ad un tenore che tempo fà non sarei mai riuscito a sostenere.
Mai e poi mai sarei riuscito a liberarmi del telefonino o del portatile (che adesso uso solo per far sapere ai miei che sono vivo), non sarei mai riuscito a dormire in posti così squallidi ma talmente semplici da essere belli. Mai sarei riuscito ad accettare così tanta semplicità nella mia vita, anche se l’ho sempre cercata non sarei mai riuscito ad apprezzarla in Italia. Oggi sto vivendo una sequenza di esperienze che mi danno la possibilità di vedere l’altra faccia del mondo, quella che io ho sempre visto sorridente, entusiasta ed euforica del nulla che la circonda; ma oggi vivendo ed applicando questa filosofia ho scoperto che quel nulla è immerso nel sapere, nella consapevolezza di quello che si è, di dove si può o si vuole arrivare. Quel nulla riempito da ottimismo e sorrisi, quel nulla così colmo di entusiasmo, a volte quasi ipocrita di sè stesso nasconde un dolore radicato talmente nel profondo delle persone da essere dimenticato. Il dolore dell’ invidia e della non conoscenza. Io posso apprezzare questa condizione di vita perchè io conosco l’altra, quella del mondo civilizzato, io sò.
Loro, quelli che qua ci sono nati e non hanno avuto la possibiltà di scelta, ci vedono comodi sulle nostre poltrone di pelle, davanti alle nostre televisioni o ai nostri computer, ignari di cosa voglia realmente dire fare due kilometri a piedi per accappararsi i secchi d’acqua che serviranno per la giornata. Loro ci accusano di essere superficiali a tal punto da essere odiosi, ma non riescono a capire quanto semplicemente bello è il loro modo di vivere, e quando provo a spiegarglielo, non riescono a comprendere perchè ci vedono superiori, ma non sanno che lo siamo solo praticamente; perchè moralmente ci fanno un culo tanto!


















QUINDICESIMO LIVELLO



Si è ormai quasi fatto notte e questa maleddetta corriera ha già iniziato il tratto di strada di terra bianca che dall’interno del paese scende giù fino alla costa, fino a Cumuruxatiba.
Appena arrivati a destinazione, intorno alle ventirè, mi rendo subito conto che quello che mi avevano detto di questo posto, corrisponde al vero. E’ un paese di medie dimensioni, evidentemente abitato in parte da pescatori ed addatato da poco al turismo. Si nota subito il lungo pontile che dalla spiaggia principale, difficile da individuare in mezzo alla sabbia a perdita d’occhio, s’intrufola in mare. Le barche attraccate al pontile, quasi tutte attrezzate per la pesca, oscillano vistosamente, e l’oceano che s’infrange sulle loro chiglie quasi ti culla. Il centro del paese ha un’aspetto molto simile a quello di Bonifacio in Corsica, con la sostanziale differenza che non é arroccato sulla collina , ma quasi sfiora l’acqua del mare; e sopratutto è molto più povero. Le casette, altrettanto povere e tutte più o meno bianche si alternano alle capanne di recente costruzione per i turisti. La brezza che increspa l’oceano rende la serata molto frizzante e quasi fredda.
Mi infilo nel primo locale che trovo aperto, un ristorantino, ex locanda di pescatori, addattato anch’esso al nuovo turismo. Dalla cucina esce una ragazza, che credo sia la propietaria oltre che la cameriera e quasi senza nemmeno guardarmi, senza rendersi conto che sono un’estraneo (cosa molto sentita da queste parti) mi chiede se voglio bere o mangiare.
“Mangiare bene e bere meglio” rispondo cercando di strapparle un sorrisetto, ma lei impassibile nella sua aria funeerea si limita a fare un cenno con la testa.
Ritorna portandomi un cestello di pane, evidentemente fatto in casa almeno da una settimana ed una caraffa di vino il cui sapore non è migliore dell’aspetto.
La cena invece è ottima, un pesce che non ho riconosciuto, cotto sulla brace con abbondante sale e  contornato da pomodori farciti.
Finisco di cenare, non domando nemmeno il caffè, notando l’assenza della macchina, e vado a pagare al bancone.
Chiedo alla tipa poco simpatica, ma tutto sommato carina, di indicarmi un posto dove poter passare alcune notti fino a che non trovo una sistemazione più o meno fissa. Lei dopo avermi guardato in silenzio con la stessa espressione che ha l’esaminatore alla patente, mi butta una chiave sul bancone e mi dice:
“Capanna numero 35, in fondo al viale alberato a destra. 10 dollari a notte, per gli stranieri pagamento anticipato ed in dollari, niente puttane, niente alcol o droghe e niente casino la notte. “
Ok, le poso 30 dollari sul bancone, mi prendo la chiave ed esco senza salutare.
La capanna è degna del suo nome: tetto di paglia spiovente all’esterno oltre le pareti di legno che non raggiungono lo stesso, amaca al posto del letto e cosa molto importante da queste parti: zanzariera.
Faccio molta fatica ad addormentarmi, un po’ per la mia scarsa attitudine all’amaca ed un po’ perchè mi tormento col pensiero di Marlene, di Alessia, di Miriam, dell’italia, dei miei genitori, i miei amici, la mia macchina. Mi tormento un po’ con la nostalgia, che nei poco rari momenti di solitudine affiora.
La mattina ritornando alla locanda mi rendo conto di quanto effettivamente sia bello il posto.
Credo di avere visto e vissuto molti più luoghi e più cose di quanto una persona normale riesca a vedere o provare in un’intera vita. Eppure continuo a provare sempre le stesse emozioni quando mi soffermo davanti a paesaggi come questi. Continuo sempre a sorprendermi emozionato, stupito anzi sbiggottito, quasi commosso, di fronte a tale imponenza della natura. Per fortuna questa è una di quelle cose alla quale non mi sono ancora abituato.
Faccio colazione con del latte e con lo stesso pane di ieri sera. Durante la mattinata mi lancio in un giro esplorativo del paese scoprendo il mercato locale del pesce, che sembra essere quasi l’unico nutrimento degli indigeni, diversi negozi di artigianato, evidentemente nati solo per il turismo, ed un centro paese sicuramente più tipico ed accogliente di quanto lo siano state molte altre metropoli dove ci siamo fermati io e Marlene in passato.
Nel pomeriggio vado in spiaggia, dove incontro alcuni turisti, ma non riesco a fare il bagno; l’oceano continua a spaventarmi a morte.
La sera torno nella locanda per cenare e dopo una discreta portata, ma inferiore a quella di ieri, riesco finalmente ad addolcire la proprietaria ed a convincerla a fare due chiacchere con me, appena finito di lavorare.
Lucia, italobrasiliana, ventinove anni, mora, tanto ricciola da sembrare un rododendro, carnagione scura, bel fisico e discreto viso, le mani ruvide e rovinate dal lavoro, orfana del padre da due mesi che sembra essere stato il fulcro della loro attività ed unica fonte di sopravivenza.
Lucia mi spiega che la scortesia che ha nei confronti dei clienti è esclusivamente dovuta alla sua attuale situazione, mi spiega inoltre che il padre era l’unica persona in grado di far andare avanti la baracca, era lui che andava la mattina a comprare le vivande per preparare i pranzi, era lui che teneva i contatti con i tour operator per far arrivare i turisti, era lui insomma che gestiva tutto; lei e sua madre si limitavano a fare le pulizie e ad aiutarlo nel modo che lui indicava loro.
Lucia visibilmente commossa mi spiega che ora, da sole, non possono andare avanti, che avrebbero bisogno di trovare un aiuto che sappia come prendere in mano la situazione, ma che a Cumuruxatiba manodopera non se ne trova molta, e che comunque non saprebbero proprio come fare a pagarla.
Prima ancora di chiedermi se queste cose le sta raccontando a me, emerito sconosciuto, solo perchè sono l’unico sfogo possibile in questo momento o perchè è fin troppo evidente che sto cercando un modo per vivere a Cumuruxatiba, mi offro volontario.
“Senti io non credo di essere proprio all’altezza, ma cosa ho da perdere? “
“No, grazie, sei gentile ma ti ho già detto che non possiamo permetterci di pagare nessuno”.
“Forse non hai capito, io come ti ho già spiegato, non sono scappato dal mio paese per cercare qui un lavoro, ma per cercare un’alternativa al lavoro. Voi mi date da dormire e da mangiare ed io in cambio vi aiuto. E poi ho anche fatto il cuoco! “
“Non saprei, posso provare a domandarlo a mia madre, ma lei diffida molto degli estranei, avrà senz’altro paura che tu voglia soltanto trovare il modo di non pagare il conto! “
“Nessuno di noi ha nulla da perdere, tu falle capire questo! “
“Ci provo ma non ti assicuro niente.”
Lucia mi accompagna alla mia capanna e se ne torna a casa con la promessa che la mattina seguente a colazione mi avrebbe saputo dare una risposta.
Il solito pessimo pane, il solito latte anacquato ed un sorriso di Lucia che mi lascia ben sperare. Appena la locanda si svuota dei clienti locali, Lucia mi chiama in cucina. Mi trovo davanti a sua madre, mi sento come ad un colloquio di lavoro, sensazione che mi ero quasi dimenticato. Mi domando chi cazzo me l’ha fatto fare. La mamma di Lucia dopo aver confabulato con lei in un dialetto molto stretto, a me incomprensibile, si presenta:
“Io sono Domitilla la mamma di Lucia, spero che la tua provenienza, identica a quella del mio povero marito, ti renda capace di darci una mano. Dopo pranzo vieni qui verso le tre e vedremo di definire meglio la cosa”
Mi tende la mano e sotto lo sguardo più sbigottito che entusiasta di Lucia mi da il benvenuto a Cumuruxatiba ed alla locanda “Vila de Pescadores”.
Esco dalla cucina sudato marcio, e non solo per il caldo, ma maledettamente consapevole di essere riuscito ancora una volta a farcela. Consapevole di aver salito un’altro scalino verso la mia meta.
Circa un quarto d’ora prima dell’appuntamento, Lucia mi viene a svegliare e si dice sbigottita della reazione di sua madre ed allo stesso tempo contenta di aver trovato qualcuno che possa aiutarle, di aver forse trovato il modo di tirarsi fuori da una situazione troppo drammatica per due donne brasiliane sole. Una situazione che leva il sorriso.
Alcune cose non le ha prorpio dette, ma le ha ben impresse negli occhi.
Assieme andiamo da sua madre che incomincia ad elencarmi le cose che potrei fare:
“Visto che hai un passato da cuoco ed io, i fornelli li ho sempre odiati, potresti metterti in cucina; potresti anche lasciare la capanna e trasferirti nella stanza che abbiamo di là, intanto è libera e faresti anche da custode, sai ogni tanto c’è qualcosa che si rompe o delle manutenzioni da fare”.
Io non nego niente, la lascio parlare ed accetto tutto, conserziente come un ragazzino che patteggia con i suoi genitori pur di ottenere la libera uscita per il sabato sera. E così inizia la mia nuova avventura, un po’ attratto da questa totale immersione nella quotidianità di Cumuruxatiba, un po’ attratto, perchè negarlo, da Lucia e da questo suo modo di farmi sentire quasi un nuovo componente della sua famiglia.
I primi giorni sono molto duri, scorrono lenti fra migliaia di cose da fare, da organizzare e da recepire. Bisogna inserirsi con la mente su questo nuovo registro ed abituarla fino a farle sembrare le cose normali. I primi giorni bisogna entrare nel ritmo e ci si sente molto sbigottiti, spaesati, anche se devo ammetterlo, Lucia è veramente brava nel mettermi a mio agio. Giorno dopo giorno si rivela una ragazza stupenda, capace di una comprensione tale che sembra quasi riesca a leggere nell’altrui mente.
Lei riesce a d appacificare e sollevare sua madre nei momenti duri e tristi e contemporaneamente riesce a far sembrare a me tutto molto semplice, mi propone le cose come se fossero un gioco dove non c’è nulla da perdere.
Io e lei andiamo quasi tutte le sere, dopo il lavoro, sul pontile in mezzo al mare; ci piace parlare, confessarci l’un l’altro quelli che sono i nostri stati d’animo in questo particolare e difficile momento della nostra vita, ci piace ascoltarci, scrutarci e... lo ammetto qualche volta è capitato: baciarci.
Ci piace stare lì, immersi nel silenzio della notte, incrinato solo dal rumore del mare che si frastaglia sulla spiaggia; ci piace parlare osservando un tetto di stelle appena appannato dal bagliore delle luci del paese alle nostre spalle. Ci piace immergerci in quest’atmosfera brasiliana vivere fino in fondo questi momenti, questa Cumuruxatiba
Anche se gran parte dei miei pensieri è ancora rivolto a Marlene, che sta per me diventando come Marla in Fight Club: quel taglietto sotto il palato che si riemarginerebbe se non lo stuzzicassi continuamente con la punta della lingua; devo ammettere che Lucia è a dir poco intrigante. Sarà questa sua aria da ventinovenne legata alla mamma ma stracarica di doveri e molto poco propensa ai piaceri, che mi stuzzica. Vorrei poterle far capire che esistono dei piaceri che sono tali per tutti e che sopratutto sono accessibili a tutti, anche a lei!
Vorrei farle capire che forse se provassimo a goderceli assieme quei piaceri, la smetteremmo di giocare a rincorreci come dei bambini troppo timidi, vorrei dirle di accompagnarmi in camera e di fermarsi a fare due chiacchere ma, non capisco il perchè, non ci riesco. Forse perchè la vedo troppo indifesa, una preda troppo facile ed una ragazza troppo vulnerabile, o forse perchè fondamentalmente ho troppa paura che un nostro rapporto, o peggio, un suo rifiuto possa fare del male a noi stessi ed a questa meravigliosa situazione che ci stiamo costruendo.
Mentre i giorni passano aumenta la mia precisa convinzione che la “Vila de Pescadores” non può funzionare a lungo senza un immediato e radicale intervento. Non si può raccogliere senza seminare!
Un pomeriggio come tanti, convinco Lucia a prestarmi le chiavi del pick up che era stato di suo padre. L’avviso di non aspettarmi per qualche giorno e me ne vado sotto i suoi occhi stupiti e credo impauriti.
Passo i tre giorni seguenti in giro per tutte le discariche del Brasile a cercare materiale utile e pezzi per riparare il materiale utile. Rientro a Cumuruxatiba il venerdì sera alle undici e quarantadue, calorosamente accolto da Lucia ed un po’ meno calorosamente da Domitilla che bestemmia qualcosa in dialetto; non certo un bentornato. Le invito a seguirmi in strada dove ho parcheggiato il pick up, il cui cassone contiene una macchina per caffè espresso quasi funzionante, reti e materassi, un insegna al neon bruttina ma migliorabile, un juke box ed una stufa per cucine industriali a dieci fornelli.
Non mi è molto difficile scorgere l’entusiasmo negli occhi di Lucia; sicuramente meno sbilanciato è lo sguardo di sua madre che però, poco dopo, si lascia scappare un piccolo ma coinciso ringraziamento.
Nei giorni seguenti passo il mio tempo libero a riparare tutte le cose ed a cercare di installarle nel migliore dei modi.
Una settimana dopo il risultato viene ben accolto dai clienti e la “Vila de Pescadores” si trova così una degna insegna luminosa, una macchina da caffè espresso, un juke box che propaga musica in sala, una cucina nuova e sopratutto dei veri letti all’interno delle capanne.
Mentre io e Lucia diventiamo sempre più intimi, sua mamma fingendosi ignara del nostro rapporto, mi coinvolge sempre più nelle faccende dell’azienda, fino a permettermi di occuparmi dei rapporti con i tour operator.
E così a circa un’anno dal mio arrivo a Cumuruxatiba ed in meno di sei mesi da quando ho sostituito in pieno il papà di Lucia nella gestione dell’azienda, ho incrementato l’affluenza di turisti al villaggio del centocinquanta per cento, allacciato rapporti con sette nuovi tour operator, costruito altre dodici capanne e migliorato le ventitre già esistenti.  Ho convinto Domitilla ad assumere alcune donne del luogo per aiutarci nelle pulizie delle capanne al cambio dei turisti. L’ho convinta inoltre a comprare un piccolo furgone a nove posti e darlo in affidamento al figlio del barbiere per fare da spola da Bahia fino al vilaggio; in modo che i nostri ospiti possano non solo arrivare e partire più comodi che in corriera, ma che durante il viaggio abbiano anche un autista che faccia un po’ da guida spiegando loro le meraviglie del Brasile.
Inoltre io e Lucia abbiamo ufficializzato il nostro rapporto e se devo dirla tutta andiamo veramente bene insieme. Stiamo vivendo un momento d’oro, stiamo affrontando qualsiasi situazione standoci l’uno al fianco dell’altro ed aiutandoci a vicenda. Siamo anche riusciti, o meglio è riuscita a farmi passare la mia piccola crisi nostalgica; quando mia mamma mi ha scritto dicendomi di essere riuscita, con l’aiuto di un buon legale, ad incassare la mia parte di soldi per il successo di “The Black Ship”. Parte che ammonta a circa seicento milioni di lire, depositati in banca e vincolati fino al mio ritorno.
E’ fatta così mia mamma non ci posso fare nulla, lei vede la mia partenza come una condizione di disagio e farebbe qualsiasi cosa pur di farmi tornare a casa. Lei vede questa mia esperienza, come una malattia che prima o poi mi deve passare, e cerca in ogni modo di guarirmi. Purtroppo quello di cui non si rende conto è che io, in questo preciso momento, l’unica malattia da cui sono contagiato è la felicità.
Quale male peggiore si può fare ad un malato di felicità se non quello di volerlo guarire?
Le cose ora mi vanno nel migliore dei modi, ed anche se sò di non essere nato libero, di non essere nato con la possibilità di scelta, anche se sò di non aver deciso io dove nascere, di quale sesso, con quale aspetto fisico, con quale condizione economica e con quale carattere, anche se ho la precisa convinzione che non sarò mai libero, posso affermare con sicurezza che il mio piccolo pezzo di mondo me lo sono creato e che me lo stò godendo proprio tutto.
A Cumuruxatiba le cose continuano a scorrere con dei tempi ben diversi da quelli italiani, qui ogni cosa ha il suo corso, come in Italia del resto, solo che ha un corso molto più lento. Inizialmente si fa un bel po’ di fatica ad abituarsi a questi ritmi, noi rispetto ai Brasiliani abbiamo sempre molta fretta di concludere le nostre vicende e per quanto ci sforziamo di imparare a vivere in questo Paese, non riusciamo mai a toglierci di dosso quella malefica fretta che ci contraddistingue.
Ed è forse proprio grazie, o per colpa, di quella che sono riuscito in così poco tempo a trasformare una pocopiùchelocanda a gestione familiare in un vero e proprio villaggio turistico. Questi miei interventi hanno suscitato una grande stima nei miei confronti da parte di Lucia, di Domitilla e di tutto il paese, ma in realtà non sono certo che abbiano fatto lo stesso effetto su di me. Voglio dire: sono scappato da un qualcosa che non mi piaceva, per venire qui a disintossicarmi, per imparare a vivere in un modo più semplice, per cercare di addattarmi ed abituarmi a qusto strano Paese ed al suo strano ma tranquillo modo di vivere.
Invece sto facendo l’esatto contrario, sto portando qui quello che mi ero lasciato alle spalle, sto inconsciamente abituando questo piccolo paese di pescatori alla mia civiltà.
Sto facendo quello che non avrei mai voluto fare e neanche me ne sto accorgendo.
Daccordo lo faccio a fin di bene, e poi come faccio a fermarmi ora che sono tutti così felici dei risultati ottenuti?
Come faccio a fermarmi proprio ora che tutti sono sono così entusiasti della grande affluenza del turismo, ora che tutti hanno incominciato a vivere e guadagnare su questo turismo?
Come faccio ora, a dire a tutti che ho sbagliato e che se continuiamo così ci troveremo immersi nello stress, nelle incomprensioni date dall’ingordigia, nell’ipocrisia ed in tutta quella merda che caratterizza il mio Paese, il suo modo di vivere e forse, in parte, anche me stesso.
Come faccio a dire a tutta Cumuruxatiba che li sto portando verso la rovina del loro paese?
Ma questi problemi non hanno neanche il tempo di assillarmi perchè, come ho già detto,  proprio quando tutto sembra andarti nel migliore dei modi, tutto ti crolla adosso.
Una sera come tante, appena finito di lavorare nel ristorante, io e Lucia andiamo a farci la solita passeggiata sul solito molo.
Quel maleddetto molo che ha caratterizzato la nostra storia; lì ci siamo baciati la prima volta, lì abbiamo deciso di ufficializzare il nostro rapporto, lì abbiamo preso molte decisioni sulla mia vita e su quella dell’azienda, lì abbiamo creato la strada che ci ha portato fino a questo punto.
Lucia è molto strana, misteriosa ma stranamente allegra, soddisfatta.  Nonostante i miei sforzi per cercare nelle sue espressioni e nelle sue parole, cosa ci sia questa sera di così diverso dalle altre, non riesco a trarne una conclusione.
Lei butta diversi sassolini in acqua, lasciando trapelare una vena di nervosismo che un po’ mi proccupa ed in parte m’infastidisce; mi prende la mano e mi fissa negli occhi.
“Vladi devo dirti una cosa”
“Dimmi, è una cosa bella o una cosa brutta? “
“Questo me lo devi dire tu Vla “
Inizio a preoccuparmi.
“Ehi, Lucia che c’è ? Così mi fai preoccupare! Andiamo, non ci sono mai stati segreti tra noi, e non ci sono nemmeno mai stati problemi che non abbiamo risolto assieme, qualunque cosa sia dimmela e vedrai che troveremo il modo di affrontarla”
Lei ha gli occhi lucidi, le tremano le gambe ed il sudore nelle sue mani si rende palpabile; ma io sono sinceramente pronto ad affrontare qualunque cosa, sono certo di chi è Lucia, e di cosa rappresenta per me, e sono altrettanto certo di essere pronto ad incassare e forse accettare qualsiasi cosa stia per dirmi
“Vladi... io... non so come dirtelo”
”Fallo e basta, ti prego”
“Io sono incinta”
 
Non così tanto pronto cazzo!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
SEDICESIMO LIVELLO



Cumuruxatiba, cinque anni dopo, ore due
 
Lucia dorme tranquilla al mio fianco, mammamia quanto è bella!
Manuel, nostro figlio, dorme altrettanto bene nel suo letto, dove la nonna, che ormai ha abbandonato le faccende dell’azienda per dedicarsi interamente al nipote, l’ha lasciato circa quattro ore fà.
Io, appiccicoso dal caldo, mi alzo, mi accendo una sigaretta ed esco a fumarla per non far respirare il fumo a tutta la mia famiglia.  Passeggio lungo i vialetti illuminati che portano alle capanne dei turisti, ormai diventate centoventuno, lungo il bagnasciuga della spiaggia rastrellata e riordinata con cura dai bagnini, fra le sedie alzate sui tavoli del pub del villaggio. Passeggio per la “Vila de Pescadores” e mi rendo conto di quanto ormai non sia neanche più lontanamente degna di questo nome.
Quando sono arrivato qui, mi sono innamorato di un piccolo ed umile paese, di un posto così semplice che quasi sembrava dovesse fermarsi. Oggi non lo ritrovo più!
Oggi, girovagando per il villaggio turistico e per tutto il paese, respiro aria di turismo, di pomate abbronzanti e doposole, di gin tonic, di piano bar, di mance e conti salati, di visite turistiche e guidate, di cellulari, di televisioni e paraboliche, di comodità e di civilizzazione. Non respiro aria buona.
Sì lo ammetto, mi sento responsabile, colpevole. So che non è tutta colpa mia, ma so anche che il “la” l’ho dato io, che la prima scintilla è partita da me; e questo non riesco a perdonarmelo.
Torno a casa: un bel villino fatto costruire sulle alture del vilaggio ben distante dal frastuono dei turisti in spiaggia o ammassati nel centro negozi o nella discoteca.
Salgo al piano di sopra, in camera, stando bene attento a non svegliare nessuno, tantomeno Domitilla che dorme al primo piano, ma fortunatamente in una stanza distante dalla porta di casa. Dal secondo cassetto del mobile centrale della nostra camera, estraggo i miei documenti ed una stecca di sigarette. Tolgo dalla cornice la foto di famiglia, che Lucia tiene sul comodino e me la metto in tasca; scrivo poche righe per lei e per mio figlio su di un biglietto che lascio al posto della foto.  Scendo al piano di sotto e nel più silenzioso dei modi m’infilo in tasca una manciata di banconote di piccolo taglio e le chiavi del furgoncino che il figlio del barbiere usa come bus per i clienti.
Percorrendo con il furgone la strada d’uscita del villaggio ed il vecchio centro storico di Cumuruxatiba, cerco di memorizzare quanti più dettagli possibili.
Imbocco la strada sterrata che porta a Bahia alle due e cinquantasette e prevedo di essere a Rio de Janeiro entro le cinque del pomeriggio di domani.
Verso le nove del mattino mi fermo in una specie d’area di servizio per fare colazione con del caffè nero bollente, servitomi da un’anziano signore che parla dialetto.
Arrivo all’aereoporto di Rio de Janeiro nel tardo pomeriggio e dopo tre pacchetti di sigarette.
Una rapida occhiata al tabellonedelle partenze, e mi affretto a prendere il biglietto per il volo 762 in partenza per Malpensa. Da Milano a Genova poi sarà un attimo.
Butto uno sguardo alla foto della mia famiglia, mi volto a guardare il Brasile fra le vetrate dell’aereoporto, e senza più voltarmi percorro la corsia d’imbarco.
GAME OVER

Noo, non ci posso credere, proprio ora che l’avevo quasi finito; non ci posso credere!
Sarei stato il primo fra i miei amici a terminare The Black Ship.  Pensavo che ambientare il gioco sulla sua stessa storia fosse un’ideona, e invece...
Ora mi tocca rincominciare tutto da capo, in un altro tempo, con altri personaggi. Che palle!
Questa volta però provo ad ambientarlo nel passato.
demo
inizia nuova partita
pausa
riprendi partita
salva
carica salvataggio
esci

 

Siena, ore cinque e quaranta,
 
Il Canto del gallo, puntuale come al solito mi sveglia; le braci ancora accese nella stufa, conferiscono all’aria quel tepore che....
 
FINE

Per le citazioni non citate, mille grazie o mille scuse, vanno a:



Luciano Ligabue
Charles Baudelaire
Francesco Guccini
Rolo Diez
Senso Unico
Charles Bukowski
La Rosa Tatuata
John Fante
Genialando
Tiziano Sclavi
Quartiere Latino
Albert Hofmann
Lorenzo Cherubini
Sigmund Freud
Timoria
Gabriele Salvaores
Articolo 31
Bernardo Bertolucci
99 Posse
Milo Manara
Fabrizio De Andrè
Cristian Cull
Andrea De Carlo
Catanese Antonio
Enrico Brizzi

Chimo

Nicholas Evans








un giorno guidati da stelle sicure
ci ritroveremo in qualche angolo di mondo lontano
nei bassifondi tra i musicisti e gli sbandati
o sui sentieri dove corrono le fate..
Modena City Ramblers








e all’improvviso l’età disperde
quello che credevo e non sono mai stato
Francesco Guccini








forse saranno cose già sentite,
o scritte sopra un metro un po’ stantio,
ma intanto questo è mio!
Francesco Guccini