Ed ecco qualche altra cosina su di me:
Nato il 9 Maggio del 1976, follemente innamorato della cucina, degli animali e delle belle e divertenti auto...
titolare di:
cinedipendente
e scrittore da strapazzo ecco il mio libro:
e scrittore da strapazzo ecco il mio libro:
THE BLACK SHIP
di
Stefano Rossi
Dedicato a:
Prof.sa Corbo, per avermi fatto capire che volevo
farlo.
Laura Losio, per avermi illuso di poterlo fare.
C:\the black ship\start.exe
demo
inizia
nuova partita
pausa
riprendi
partita
salva
carica
salvataggio
esci
PRIMO LIVELLO
Gennaio,
mattina ore nove
La sveglia programmata nello
stereo si accende come tutte le mattine, puntuale, quasi a ricordarmi che anche
oggi mi aspetta una giornata banale e triste, uguale a tutte quelle che l’
hanno preceduta negli ultimi due anni.
Comunque il pezzo scelto la sera prima, per il risveglio: “la
tarantella” dei Persiana Jones mi da quello spunto positivo per poter
raggiungere il bagno e compiere gesti quasi rituali come il lavaggio di faccia
e denti. Scontrando nello specchio il riflesso di me nudo provo sempre quel
sentimento di disgusto. Spalle piccole e pancetta!!! Sembro una pera.
Mi vesto molto velocemente, con le prime cose che trovo
nell’armadio, pantaloni neri con tasconi, felpa con cappuccio, e rigorosamente
camicione sopra la felpa. Osservo quasi religiosamente il rito del caffe’,
amaro, per gustare meglio la sigaretta che fumero’ dopo. Come tutte le mattine sono paurosamente in ritardo, in ufficio si incazzeranno come
delle bestie; il principale una volta si rabboniva raccontandogli che la sera
prima avevo avuto una buona occasione con una tipa e dettagliandoli
minuziosamente i particolari quel grassone si dimenticava del mio ritardo. Ora
non funziona più, si e’ fatto furbo e ha capito che una media di quattro serate
film porno con quattro ragazze differenti ogni settimana è un tantino esagerata.
Ho provato a dirgli che la sera prima ero stato a svaligiare i locali di mezza
Genova riempendomi di birra e che quando i “Persiana” hanno provato a
svegliarmi io ero ancora in botta piena, credo che comunque avrei fatto meglio
a stare zitto.
Mi siedo alla mia scrivania ed accendo il mio computer,
comincio a pensare ed accendermi sigarette a ruota libera. Io di mestiere
faccio il grafico, disegno videogiochi, sono molto bravo e credo sia per questo
che non mi hanno ancora sbattuto fuori. Per la prima volta sto creando
interamente un gioco, di solito mi limitavo a curare solo l’aspetto grafico,
questa volta invece oltre che dare un volto al protagonista devo anche dargli
una vita, e qualcosa a fare.
“The Black Ship”, cosi’ si chiama il mio gioco, e’ la storia
di un impiegato modello che rottosi della vita di tutti i giorni prende il volo
verso paesi lontani. Il giocatore deve riuscire a fornirgli i documenti falsi e
organizzargli la fuga parandogli il culo dagli sbirri, dalla moglie, dai
creditori che vogliono fargli la pelle e da quell’idiota del figlio che l’ha
sempre reputato un idolo. Bello stronzo, guarda che razza di idolo ti sei
scelto! Ma quest’affermazione sul gioco non me l’hanno mica fatta mettere.
Le ore fortunatamente volano quando lavoro, quando il tuo
lavoro e’ fatto di fantasia, il tempo in men che non si dica e’ già passato. E’
molto bello creare qualcuno, dargli un volto, dei sentimenti, e fargli fare
delle azioni; puoi creare la tua vita alternativa e sfogarti facendogli fare
tutto quello che tu faresti nei tuoi sogni più remoti!
Comunque dicevamo: il tempo vola e la mia collega, incomincia
a starnazzare sulle regole da mantenere per la buona convivenza in ufficio, ed
a dire che il fumo delle mie sigarette la infastidisce e le aumenta l’emicrania,
che quando lei era ragazza c’era più rispetto per i colleghi più anziani e che
lei non si sarebbe mai permessa di fumare in ufficio. Naturalmente non si e’
dimenticata di aggiungere quanto il fumo passivo faccia male e che sono troppo
giovane per fumare. Dio come odio quel genere di persone, Domenica Messa e
comunione, la sera circolo dell’azione cattolica pro-anziani e durante la
settimana a sentenziare contro l’immigrazione. Comunque sia la mia giornata di
lavoro e’ finita, la mia pagnotta me la sono guadagnata e posso andarmene a
casa tranquillo. Il viaggio di ritorno e’ sempre molto consolante, adoro
guidare, adoro i motori e le macchine ed in particolar modo adoro guidare la
mia macchina. Ho dedicato tutto me stesso
e gran parte del mio conto in banca alla mia Ford Escort Cosworth. Ora
e’ a dir poco meravigliosa, provo sempre una gran gioia a guidarla, anche
perché guidare e’ una delle poche cose che mi riescono veramente bene.
Vedete: guidare per me e’ come farsi una bella cavalcata su
uno stallone in mezzo ad un bosco. Tu ed il tuo cavallo da soli, nel pieno
della vegetazione con un silenzio sacrale; intorno a voi il mondo intero
frenetico e frettoloso, ossessivo e possessivo, freddo ed scomodo. Davanti a
voi solo il bosco caldo e accogliente, silenzioso ed armonioso. Ecco guidare
per me e’ cosi’! Io, la mia macchina, e la strada! Una scommessa tra me e le
curve che mi stanno davanti; la macchina diventa un’estensione del corpo, la
strada un prolungamento della vista ed ogni curva un emozione nuova, mai
provata, una sensazione ogni volta diversa, una botta di adrenalina viva. Lo
stress ed il nervoso accumulato durante la giornata sembrano restare alle tue
spalle sull’asfalto ancora caldo dal passaggio delle tue gomme. Tirare in
macchina per me finche’ non sarà morte sarà sempre fonte di vita!
Comunque arrivo a casa della mia tipa: bacini, bacetti, soliti
convenevoli e che si fa? Boh!? La solita vita: un giretto nella via principale
non che’ pedonale, i soliti fighetti vestiti tendenza che più che quattro passi
sembra facciano una sfilata per eleggere il più caccirro del giorno, le solite
quattro pivelle con vestiti da stupro alla ce l’ho solo io (potrei dire per
ognuna la taglia di reggiseno e le misure dei fianchi solo guardandole); in
pieno inverno con l’ombelico ben in vista ed il tatuaggio sulla tetta o chiappa
sempre in primo piano. I classici quattro stronzi in cerca di due di picche, i
soliti tipi loschi che smarronano in piazza, ed i vigili che, visto che Natale
e’ appena passato, reintegrano la tredicesima con verbali da infarto. Le solite
cose insomma!
Tutto ciò aumenta la tristezza che una giornata come la mia
riesce a darti!
Io mi chiedo: possibile che nessuno abbia niente di meglio da
fare che passare il suo tempo a cazzeggiare in una via pedonale facendo finta
di divertirsi? Nessuno e’ almeno un minimo interessato a vedere un po’ più in
la’? A nessuno interessa cosa c’è più
avanti? Davanti a tutto questo, al di la della routine di tutti i giorni, oltre
le abitudini della società, oltre i quattro passi fondamentali della vita che
di fondamentale hanno solo l’educazione con la quale sono stati trasmessi?
No, non ci credo, non possiamo essere tutti così idioti, nel
mondo esistono paesi dove le persone si divertono a giocare su di una spiaggia
con palloni di pezze e noi qua che ci lamentiamo perché non riusciamo a
sorridere neanche con il giubbottino “Essenza” che fa molto trendy, ed il celly
che squilla. Cazzo loro si’ che si divertono, e sapete perché? Perché hanno
ancora il piacere di assaporare le cose semplici, di tutti i giorni sapendole
apprezzare cosi’ come sono, senza dover per forza trovare un significato ai
loro gesti!
Comunque in un modo o nell’altro il pomeriggio e’ andato. Si
risale in macchina, finalmente. Autoradio in sottofondo: la prima cassetta dei
“Quartiere latino”, direzione casa. Problema cena facilmente rimediato, tra un
po’ di stucco, qualche cazzuola ed un po’ di sughero da parete, reduci del
restauro del mio monolocale, trovo anche del cibo, piu’ o meno buono, due uova,
pancetta, e wurstell. Niente male per un ex cuoco! Mi preparo un buon caffè e
rispetto in osservato silenzio il rito della sigaretta dopo cena. Potrei
uccidere chiunque provasse a mettersi tra me e lei.
SECONDO LIVELLO
Puntuale come un esattore delle tasse il telefono squilla: ore
20.47, la mia ragazza che mi chiede che si fa questa sera.
“Ciao Vladi sono io.. volevo chiederti per questa sera che si
fa?”
Come volevasi dimostrare!
“Cinema?”
“No, che palle sempre al cinema, e poi non c’è niente di
bello. Caso mai domani”
“Ah sì, hai ragione oggi che è Mercoledì rischiamo di spendere
troppo poco, meglio domani che costa tre sacchi di più. Casa mia teneri,
teneri?”
“No, non posso ho le mie cose”
“Ah, già è vero. Pista di pattinaggio?”
“Ti ho detto che ho le mie cose!”
“Eh, già perchè tu pattini nuda…”
“Oh! Vladi non rompere,
che se ho mal di pancia non ci vengo a sgambettare su quei cosi”
“Scusa, scherzavo!”
“Scherzi sempre con l’argomento sbagliato”
“Dai lasciamo perdere, che
si fa’?”
“Boh, quello che vuoi”
“Chiamiamo gli altri e vediamo cosa fanno loro?”
“No, non ne ho voglia e poi e’ un periodo che mi stanno sulle
palle gli altri”
“Film in videocassetta?”
“Vada per il film, cosa?”
“Decidi tu, ma niente di sdolcinato”
“Per me e’ lo stesso fai tu”
“Io ballo da sola?”
“L’hai già visto un miliardo di volte, lo sai a memoria!”
“Pero’ mi piaceva, Jack Frusciante e’ uscito dal gruppo?”
“Ok, a che ora arrivi?”
“Mi preparo e sono da te”
“See, ma fai presto!”
Il mio presto significa almeno, almeno mezz’ora da quando
metto giù il telefono. Comunque verso le nove e quarantacinque sono da lei,
solito bacio di routine, un sorso d’acqua e poi via si dia inizio alle
proiezioni. Jack Frusciante e’ un film che apprezzo molto e quindi mi scorre
via molto veloce. A circa tre quarti dalla fine, Miriam, la mia tipa, si
distende sul letto dove entrambi siamo seduti e appoggia il viso sulle mie
gambe. Io le accarezzo un po’ i capelli, le faccio due coccole e lei incomincia
ad accarezzarmi una gamba. Io dentro di me penso già ad un mezzo film porno, ma
poi mi ricordo che lei non può, allora mi scende tutto e mi sposto togliendole
il viso dalle mie gambe. Lei si alza sulle braccia guardandomi con quell’aria
dolcissima di un bambino a cui gli hanno sottratto la caramella appena
scartata, si sposta di pochi centimetri e si riapoggia sulle mie gambe
rincominciando il massaggio.
Successivamente ci sono stati un paio di miei tentativi di
girare le carte in tavola e prendere il controllo della situazione ma sono stati
subito stroncati sul nascere. Il risultato e’ facilmente intuibile: alla fine
del film me ne torno a casa con un male alle palle pauroso ed incomincio a
pensare di dover morire gonfio.
I giorni che seguono scorrono più o meno tutti con lo stesso
ritmo, discretamente lenti, con la loro monotonia brevemente interrotta da
qualche evento bene o male insolito. Finche’ un giorno come tanti altri io e la
mia tipa ci vediamo con il solito gruppetto di amici, gli ultimi che riesco a
sopportare; ma che anche loro ultimamente si stanno pensionando. Ci rendiamo
subito conto che qualcosa non va. Non e’ tutto come al solito, il loro
comportamento e’ molto più distaccato, meno confidenziale del solito. Provo in
modo molto diretto a chiedere spiegazioni ma come risposta mi sento mandare a
fare in culo dicendomi che con un infame come me non ci si deve neanche
parlare.
“Ok ragazzi manteniamo
la calma, cosa avrei fatto di tanto grave? E poi proprio a voi con cui sono
stato fino a ieri?”
Massimo uno che ho sempre reputato un emerito imbecille mi
dice che non merito neanche lo spreco del fiato utilizzato per le spiegazioni.
Aggiunge inoltre notevoli insulti su mia madre.
Ora premettiamo che io non sono violento e che cerco sempre di
ragionare prima di picchiare. Adesso immaginate una merdetta con la R moscia
sempre ingellato da fare schifo, vestito tipo contadino che si reca nella
grande metropoli e con aria da superiore perché lui ha studiato e voi no!
Ecco questo e’ Massimo!
Ora uniamo il personaggio agli insulti concernenti la mia
mamma, aggiungiamo che mentre insultava gli tremavano le gambe per la paura,
otteniamo come risultato che uno così te li leva dalle mani gli schiaffi.
Cosi’ sia! Senza aspettare altre sue stronzate gratuite sulla
mia famiglia ho appoggiato la mia fronte sulla sua faccia con quanta cattiveria
basta per frantumargli il naso. Non passa neanche un minuto, nemmeno il tempo
di scaricare la rabbia che mi e’ venuta dentro, che ti arriva Claudio il suo
amichetto bello pronto ad aiutarlo. Fortunatamente uno dei terzi che assiste
alla scena ha abbastanza buon senso per fermarlo ed insultarlo. In due non e’
corretto. Mi guardo un po’ intorno e vedo la mia ragazza che piange, i miei
“ex” amici che mi guardano con una faccia come se avessi appena fatto quello
che gli permette di cacciarmi dalla compagnia con un motivo più che valido.
Prendo Miriam per mano, le asciugo le lacrime e ce ne andiamo
con le orecchie basse e la coda in mezzo alle gambe, due anni della nostra vita
condivisi con loro, da buttare nel cesso ed in bocca quel sapore di sangue
lasciatomi dal pugno di Claudio, che è sicuramente meno amaro di quello
lasciatomi dal comportamento di quelle persone che fino a pochi minuti prima,
ero persino riuscito a stimare.
Ho accompagnato Mi’ a casa e me ne sono andato anche io alla
mia. Una volta entrato in casa penso bene che per farmi passare la rabbia non
sarebbe stata un’idea malvagia mettere un po’ in ordine. L’operazione suddetta
si rivela più lunga e laboriosa del previsto, ma tutto sommato divertente; mi diverte
sempre mettere in ordine il casino creato da dei lavori definitivamente
conclusi. Mentre raccolgo e ordino barattoli di vernice, cazzuole, sacchi di
gesso, pennelli, spugne e quant’altro mi fosse precedentemente servito per dare
un aspetto più o meno carino al mio monolocale, noto che effettivamente i
lavori di restauro sono venuti decisamente bene per essere stati fatti da me,
che di edilizia non ci capisco assolutamente nulla.
Le pareti da bianco sporco sono diventate blu chiaro spugnato,
ad eccezione dell’angolo cucina che e’ di piastrelle monocottura. L’angolo tv
invece e’ sovrastato da un pergolato in legno e tegole fatto a semicerchio. Il
resto dell’arredamento rustico-moderno.
La cosa più bella del mio monolocale e’ la vista. A sinistra e
di fronte il mare, in basso la cittadina che si estende fino al porticciolo
(ormai diventato zona industriale) e sulla destra le colline che fortunatamente
mostrano ancora un paesaggio decisamente campagnolo, nonostante siano a pochi
minuti dal centro; all’estrema destra quasi alle mie spalle il monte Gazzo, che
nei rari periodi di freddo si può addirittura vedere innevato. Bella la
Liguria, neve alle spalle e mare di fronte, tutto ciò in un decina o poco più
di chilometri e tutto sotto il campo visivo di un solo sguardo.
Compiacimenti a parte resta sempre il problema. Adesso non ho
più amici! E quello che mi fa incazzare e’ che non so’ il perché! A dire il
vero io sono veramente convinto di non aver fatto niente di male a nessuno, o
forse posso averlo fatto senza rendermene conto; ma se mi fosse stato fatto
notare in modo decente avrei potuto anche chiedere scusa!
Ora le scuse non hanno più motivo di esistere.
Tanto per
farvi capire il tipo di persona che sono, posso dirvi che mi piace far vedere
in me quello che uno si aspetta di vedere, mentre quelle persone che sapranno guardare un po’
più in la, troveranno il mio vero carattere, la mia vera personalità; che tra
un mugugno e l’altro non e’ poi cosi’ male.
Vivo come
vesto, con quello che trovo nell’armadio, senza pretese esagerate. Non seguo la
moda, o meglio, se la moda di quel momento coincide con i miei gusti personali
sono alla moda, altrimenti no. Sono molto testardo, se mi metto in testa una
cosa e’ difficile farmi cambiare idea (questo e’ un privilegio riservato a sole
tre persone: mia mamma, mio fratello, e qualche volta la mia ragazza) e
comunque riesco quasi sempre a portare a termine i miei progetti.
Un unico
amore: i motori!!!
In un modo o nell’altro le mie giornate passano, sovrastate da
una monotonia più o meno accettabile. Un po’ con la mia ragazza, un po’ con
qualche amico recuperato al volo, un po’ con la mia macchina e molto da solo,
vivo la mia vita, anche senza riuscire a trovarne un senso, anche senza avere
l’entusiasmo che fino a poco tempo fa mi contraddistingueva; semplicemente
vivo. Pero’ non e’ cosi’ che dovrebbe essere, non e’ questo che mi ero
progettato per il futuro, anche se veramente progetti per il futuro non ne ho
mai fatto. Comunque non e’ così che doveva andare, voglio dire io mi sarei
aspettato un po’ di più da me stesso ed invece mi sto adagiando verso la
prospettiva di me quarantenne sposato e frustrato con relativa pancetta; una
trombata all’anno quando la moglie e’ ubriaca al punto giusto, i figli che ti
tartassano e ti rincoglioniscono, la macchina sicuramente non sportiva e tenuta
male perché intanto cosa vuoi non ho più l’eta’, le partite a carte con gli
amici (sempre gli stessi da trent’anni) il Sabato sera, ed il perenne rimpianto
di non aver preso qualche altra strada quando ancora potevo farlo.
No, non può finire così, tutto ma non così!
Voglio dire ho ventidue anni posso ancora farlo, posso ancora
prendere quella strada; non so ne come, ne quale, ma so che posso farlo. Di
certo questo comporterebbe una rottura con Miriam perché lei ci sguazza a stare
in casa ad impoltronirsi davanti alla tv ed alla play station.
Ma cosa penso a fare, intanto non avrò mai, ne il coraggio, ne
le possibilità di dare un taglio netto al passato rincominciare tutto da capo.
Non sarò mai come il protagonista di “The Black Ship” che riesce a mollare tutto e rincominciare da capo con
nuova vita, nuove emozioni, nuovi sentimenti, nuovi volti da guardare, nuove
persone da ascoltare, nuova euforia, ed entusiasmo da bruciare; per poi “game
over” “new game” e ripartire di nuovo!
Ed invece mi sconvolge la perdita di quattro amici... amici...
poco più che conoscenti!
Gli amici, quelli veri, li conti sulle dita di una mano, e
soprattutto sai che loro hanno la certezza di ciò che sei e di quello che gli puoi
dare!
Gli amici, quelli veri, non ti taglieranno mai dandoti
dell’infame, perché sei hai degli amici veri non sei un infame.
Comunque sia la serata incomincia a farsi affamata e per
questa sera ho deciso di farmi qualcosa di buono, anzi no, penso che andrò al
ristorante, questa sera si festeggia non so cosa ma si festeggia.
Scendendo le scale incontro la mia solita vicina, una tipa sui
19 anni, capelli neri come il carbone, occhi grigio cartazucchero, un fisico da
infarto: culo da urlo e tette da brivido. La classica vicina dei sogni erotici
di ogni ventiduenne che si rispetti. Mi saluta sempre con quel sorriso molto
malizioso e quell’occhiata tipo “ti ho già scopato con gli occhi”, sono sempre
più convinto che abbia una gran voglia di farmi. Rispondo al suo saluto con il
solito tono alla “vorrei ma non posso”. Managgia ai fedeli!!!
So’ che un giorno o l’altro mi mangerò le mani per non essermi
mai concesso lo strappo alle mie regole, e voglio dire, uno strappo
centodiecisessantanovanta non ti capita tutti i giorni.
Eh! Va beh!
Salgo in macchina e telefono a Miriam per vedere se le va di
festeggiare insieme a me. Risposta scontata:
“No Vladi non ho sacchi e poi mia mamma sta gia’ preparando”.
Vorrà dire che festeggierò da solo.
TERZO LIVELLO
Direzione ristorante dove si puo’ mangiare bene senza
lasciarci uno stipendio solo per aver aperto il menu’, e soprattutto dove non
ci siano finti capitalisti con Rolex da mercatino delle pulci sul polsino e
mogli ingioiellate con zirconi. Niente finta classe stasera, solo ristoranti
stilosi, soprattutto nel cibo. Finisco con il sedermi ad un tavolo de “Il
bastian contrario”, ordinando pappardelle tartufate al caciocavallo e noci,
porchetta alla piastra con contorno di patate al forno, chianti “Innocenzo IV” da
bere.
Mi serve una tipa molto carina e giovane, ha gli occhi furbi
ed un culetto marmoreo quasi quanto il seno e si direbbe sia molto sveglia; si
e’ appena concordata con il tipo di fronte a me per una serata nel locale più
trasgressivo di tutta Genova.
Ore 20.47 squilla il telefonino, e’ Miriam.
“Allora hai finito di mangiare”
“Ma veramente mi sto ancora picchiando con una porchetta alla
piastra e dell’ottimo vino”
“Ancora? Ma a che ora arrivi?”
“Non lo so, finisco e vengo a prenderti”
“E poi che si fa?”
“Quello che vuoi, dopo un pasto cosi’ sono pronto ad
affrontare qualunque cosa”
“Giochiamo alla play da te?”
“Se ti va”
“Sbrigati a finire, cosi’ prima arrivi, prima esco, prima mi
fumo una siga”
“Ok, ammazzo la porchetta, prendo il caffè ed arrivo”
“Muoviti”
Chiamo la cameriera che nel
frattempo si sta mangiando il tipo di fronte a me con occhiate alla “ora ti
trombo li dove sei” e mi faccio portare caffè e conto. Quest’ultimo é piuttosto
scioccante, settanatduemilalire!!! Mi sa’ che per un po’ fumerò MS. Esco dal
locale e vado a prendere la tipa, direzione casa mia con relativa play station.
Arrivati sotto casa come al solito non trovo posto e mi tocca lasciare la
macchina in doppia fila, cosa che mi irrita particolarmente, ma la mia pigrizia
m’impedisce di usare il box. Apro la porta di casa mi levo la giacca e mi trovo
Miriam che mi salta letteralmente al collo; inizia a baciarmi con una
passionalità di cui non la credevo capace, e mentre lo fa con una mano mi
sfiora il sedere e con l’altra mi sta già slacciando la camicia (evidentemente
non è più indisposta). Per non restare troppo indietro inizio a palparle il
sedere molto delicatamente, salendo su lungo i fianchi fino a trovare l’orlo
della maglia e sfilargliela. Il reggiseno di raso blu lascia trasparire le
forme del suo perfetto seno, dei suoi capezzoli inturgiditisi appena sfiorati
dalle mie dita. Mi faccio sfilare la camicia e le tolgo il reggiseno,
continuando a passare le mie dita su quei seni cosi’ duri da sembrare finti;
lei inizia a baciarmi l’orecchio scendendo piano, piano fin giù al capezzolo che succhia lecca
e mordicchia con notevole maestria. Sento che incomincio ad eccitarmi
notevolmente, cosi’ la prendo in braccio facendomi cingere i fianchi e la porto
in camera da letto. La butto letteralmente sul letto e mi ci corico a fianco,
incomincio a baciarle la pancia e leccarle l’ombelico, salendo su fino ai
capezzoli, mentre con l’altra mano dal seno scendo fino ai jeans che sbottono
per entrare a cercare l’orlo degli slip. Mentre la mia lingua gioca con i suoi
capezzoli ormai diventati quasi pungenti, la mia mano supera gli slip trovando
due grandi labbra gonfie e bagnate da stimolare. La masturbo a lungo portandola
sull’orlo dell’orgasmo, per poi girarmi facendola passare sopra di me e continuando
a masturbarla passando pero’ da dietro. A questo punto sente di avere lei il
gioco in mano ed incomincia a farmi impazzire succhiandomi a lungo i capezzoli
e strofinandosi sopra i miei pantaloni che quasi esplodono. Continua a baciarmi
sempre più in basso sino ad arrivare all’ombelico e mentre la sua lingua gioca
con il mio piercing le sue mani mi sfilano pantaloni e boxer quel tanto che
basta per permettere di infilare il mio membro in mezzo al suo seno. Prendo i
suoi seni fra le mani ed incomincio a farli roteare pressandomeli sul pene.
Sono visibilmente eccitato quando lei riprende il controllo della situazione,
riniziando a baciarmi ancora più in basso, scendendo oltre il glande e
succhiandomi i testicoli per poi risalire su con la lingua fino al glande ed
inghiottirmelo. Le sue calde e soffici labbra continuano a far su e giù mentre
lei ruota su se’ stessa presentandomi un clitoride alluvionato che leccherò
fino a farle avere un orgasmo. Lei poi si mette seduta e scivola sopra il mio
pene ormai tanto eretto da scoppiare, lo prende tra le mani e se lo appoggia
fra le gambe facendolo poi penetrare all’interno del suo corpo e sussultando di
piacere. Dopo circa quaranta minuti di amplesso esplodo in una abbondante
eiaculazione. Fine dei giochi.
Il resto della notte scorre più o meno lento, un
po’ sonnecchiando, un po’ fumando,chiaccherando, ed un po’ con
dell’altro buon sesso.
Risultato: alla mattina quando i “Persiana” entrano
violentemente in scena io non riesco ad alzarmi e preparami per andare al
lavoro. Miriam sonnecchiando borbotta qualcosa tipo: “non andare stai ancora un
po’ qui con me”, ci manca lei a scoraggiarmi, come se non fossi già poco
invogliato di mio.
Salgo in macchina e mi dirigo verso l’ufficio, dopo una decina
circa di chilometri incontro una tipa che fa l’autostop e dopo essermi
accostato scopro che non parla una parola di italiano ma riesco a malapena a
capire che le serve uno strappo sino a
Varazze. Visto che comunque passo di li...
Durante il viaggio lei mi racconta che e’ partita due mesi fa
dalla Croazia e che lei ed il suo ragazzo hanno fatto il giro dell’Europa in
autostop, vivendo di quello che potevano. Vendevano braccialetti, collanine e
tutte quelle cose che riuscivano a costruirsi. Io stupito di vederla sola le
chiedo dove sia il suo ragazzo; e scopro che a Frejus lui l’ha mollata per una
francesina decidendo di fermarsi lì in pianta stabile, mentre lei deve
raggiungere Varazze dove ha un appuntamento con la sua “nuova amica” che la
ospita per qualche giorno. O perlomeno così credo di aver capito, il mio
inglese lascia molto a desiderare. Comunque tra una chiacchera e l’altra siamo
arrivati a Varazze dove mi chiede se posso accompagnarla fino sotto casa della
sua amica; mi passa un foglietto malconcio e consumato dalle tasche dei jeans
dove c’è scritto l’indirizzo di casa di questa tipa. L’accompagno fino sotto
casa.
Prima di scendere dalla macchina mi straringrazia e mi regala
una delle sue collanine ed aggiunge una frase in inglese mal parlato che credo
volesse dire qualcosa del genere: “Se tutti i ragazzi fossero come te io sarei
ancora fidanzata”.
Più di mezz’ora di ritardo, cosa gli racconto al capo?
Facciamo che a questo punto gliela racconto per bene e non ci vado neanche,
torno a casa e mi passo la giornata con Miriam. Gira la macchina e torna
indietro, a parte i soldi della benzina che ho speso per arrivare fin qua ho
tutto da guadagnarci. Il tragitto di ritorno e’ tormentato dal pensiero di
Jenny che se la spassa in giro per l’Europa fregandosene di tante stronzate.
Quella ragazza in dieci minuti mi ha insegnato già qualcosa, mi ha insegnato a
sorridere anche quando e’ difficile, anche senza ragazza, senza macchina o
senza soldi. Mi ha insegnato che si può sorridere anche senza motivo!! Deve
essere bello riuscire a vivere spensierati senza aver bisogno di nulla, solo di
se’ stessi e del proprio buon umore.
Quando incontro certe persone, e purtroppo non se ne incontrano molte,
le invidio sempre un po’, invidio il loro modo di fare così spensierato e
maledettamente allegro, invidio il loro sorriso così sincero e pulito, invidio
il loro atteggiamento allegro di fronte alla vita anche quando non avrebbero
proprio un cazzo da ridere.
Arrivo a casa, pronto a dover svegliare Miriam e dirle che
oggi sarò tutto il giorno con lei, ma al suo posto trovo un letto vuoto e già
rifatto. Anche lei e’ andata. Pazienza rovinerò volentieri il suo lavoro
rifilandomi tra le coperte per almeno altre due ore. Dopo circa un quarto d’ora
quando il ricordo di Jenni mi sta abbandonando e Morfeo mi sta già coccolando
sento suonare alla porta: Miriam non può essere, lei ha le chiavi, non aspetto
nessuno perché dovrei essere al lavoro... guardo dallo spioncino... Alessia la
mia vicina di casa centodiecisessantanovanta, che faccio? Se la faccio entrare
non mi molla più, e poi non so se potrei resisterle a lungo. Se non la faccio
entrare e ha sentito che sono in casa si potrebbe offendere e mi scazzerebbe un
casino.
Ok la faccio entrare e vediamo che succede. Apro la porta e me
la trovo davanti praticamente nuda, pigiamino di seta bianca esageratamente
trasparente, senza reggiseno con relativi capezzoli turgidi perfora pigiama,
slip di pizzo: più pizzo che slip. Da infarto!
“Ciao Vladi niente lavoro oggi?”
“ EHHHH!!? No! Non ne avevo proprio voglia.”
“Posso entrare?”
“Certo accomodati pure”
“Sai ho sentito che eri in casa e volevo chiederti un piccolo
favore”
“Beh, dimmi, se posso...”
“Avrei delle foto da spedire alla mia agenzia via Internet,
solo che non sono capace e devo fargliele avere entro domani”
“Non ti preoccupare, te le invio subito”
“Tieni sono queste, naturalmente sono foto professionali,
spero che tu non mi giudichi male dopo averle viste”
“Ma figurati, il lavoro è lavoro”
Nuda, bellissima, assolutamente niente fuori posto, la ragazza
con il corpo ed il viso più bello che io abbia mai visto. Se devo essere
sincero e’ una della poche ragazze che sono più belle nude che vestite! Come si
può resistere a cotanto ben di Dio! Ma
il tradimento non e’ nel mio stile, le faccio il favore e respingo, combattendo
parecchio con me stesso, le sue miriadi di avances. Bella figura da ricchione,
meglio ricchione che infame. Non potevo, non potevo veramente, non dopo quello
che ho passato questa notte con Miriam. A proposito di Miriam, non si sa mai
che le vada una colazione insieme.
Le telefono quando sono già in macchina e la sua risposta
fortunatamente è positiva. La passo a
prendere e ce ne andiamo all’ Illusion, un locale molto carino in cima ad una
collina. L’ Illusion ha un grande pregio: la posizione, da lassù si può
guardare tutta Genova e superarla fino in mezzo al mare dove nelle giornate
limpide si può intravedere la punta della Corsica. Ci sediamo ad un tavolino il
più vicino possibile alla vetrata ed ordiniamo due colazioni molto abbondanti.
I tavolini, quelli molto vicino alla vetrata, sono separati da Felci e fiori
misti, in modo che ogni tavolo sia a se’ stante. Adoro quel locale proprio per
questo, perché sei li’ da solo con la tua tipa e ti puoi fare i fatti tuoi
senza che nessuno ti guardi o ti ascolti. Tu e la tua tipa con di fronte a te
il mare!
L’Illusion era nato come un locale di lusso, di quelli
veramente eleganti, poi non ha funzionato ed e’ stato acquistato da questi
nuovi proprietari che hanno abbassato molto le pretese sulla clientela e
conseguentemente dato all’Illusion quella fama che si merita. Ora questo e’ un
locale tendenzialmente romantico come ce ne sono molti altri, pero’ funziona,
cavolo se funziona. Caffè, latte, thé, croissant, crostini di segale, pane
caldo imburrato, succo di frutta, marmellata alla frutta e di castagne, nutella
e miele; tutto questo per sole due persone ed all’alba delle dieci.
Praticamente un sogno.
Dieci e quarantacinque, dopo quelle duemila sigarette e la
pancia che sta per esplodere decidiamo di alzarci ed andarcene a casa. Saliti
in macchina lei mi fa:
“E se a mezzogiorno venissi a mangiare da me?”
“No Mi, non è il caso, tutte le volte che vengo tua madre mi
prepara un pranzo di Natale e mi obbliga a mangiarlo tutto; e dopo ‘sta
colazione non ce la farei”
“Sì va beh! Però è una vita che non vieni più a mangiare da
me”
“Ma ti scazza perché non mangiamo insieme o perché scazza a
tua madre?”
“Un po’ tutte due, più perché non mangiamo insieme”
“Allora facciamo così: ci compriamo la roba per un bel pranzetto,
ci affittiamo un film per dopo pranzo ed andiamo da me”
“Ok, ma devo chiamare a casa e non ho più soldi sul telefono”
“Chiama dal mio”.
Mamma avvisata e spesa da fare: IL DRAMMA DEL SUPERMERCATO!!
La principale ragione per la quale in casa mia non c’è mai
niente di particolare da mangiare, nonostante il mio passato da cuoco, è per
l’odio che nutro nei confronti dei supermercati. Un’orda di persone che si
affannano a trovare la differenza di anche solo due lire su un chilo di merce
per poi uscire e giocarsi venti o trentamila lire al Super Enalotto. Tutto ciò
è quasi più ridicolo delle palestre. Voglio dire tutta la nostra vita è
ridicola, abbiamo inventato di tutto per non fare più sforzi: praticamente non
camminiamo più, non solleviamo più un peso, addirittura abbiamo la “comodità”
del telefonino. Le scale mobili negli ipermercati e nei cinema, i computer ed i
robot che fanno tutto per noi, i telecomandi, Internet, tutte cose che tolgono
il nostro quotidiano sforzo intellettivo ma soprattutto fisico; e poi
ridicolissimi paghiamo uno sproposito al mese per andare a faticare nelle
palestre. Ma saremo stronzi?!
Comunque sia la spesa abbiamo dovuto farla ed il pranzo non si
prospetta niente male: pappardelle all’astice e gamberoni al brandy, tutto rigorosamente
congelato. Arrivati in casa io mi metto a cucinare mentre Miriam si piazza
davanti alla televisione come al solito.
“Mi è quasi pronto”
“Ok metto tavola”.
QUARTO LIVELLO
Pranziamo in assoluto silenzio per non rischiare di perdere
una puntata di uno di quei banali e scontati varietà televisivi dell’ora di
pranzo. (Scusa mi passeresti il vino? Sì certo) (Come é il pranzo ti piace? Sì
e’ buono) (Cosa si fa dopo il film? Quello che vuoi) (Uh! Guarda quello e’ lo stesso che c’era l’altra
sera a Sarabanda! Ah, sì vedo), e via dicendo con frasi come queste. Un dialogo
profondo, intellettualmente impegnato. E dopo un discorso come questo, che in
un certo senso ti fa riflettere su te stesso e sulla tua vita, mi ci vuole un
buon caffè ed una bella sigaretta. L’accendo faccio i primi tiri con l’assoluta
certezza di non potermela gustare tutta, fino in fondo.
“Vladi me ne lasci metà?”
“Te ne offro una”
“No, non ne ho voglia di una intera”!
E così è riuscita per l’ennesima volta fare ciò che più mi
innervosisce: mettersi tra me e la mia sigaretta del dopo pranzo! Scoglionato
come solo io le passo metà sigaretta.
“Puoi anche evitare di darmela se ti dà così fastidio! Fai una
faccia che sembra ti abbiano rubato chissà cosa, se volevi fumarla tutta
bastava dirlo.”
E intanto se la sta
fumando lei.
“No Mi, lascia perdere non fa niente dopo tutto te lo dico
solamente ogni volta che fumo una sigaretta in tua presenza e che tu
rigorosamente me ne freghi metà”
“Ma hai voglia di litigare?”
Non le rispondo neanche, prendo gli attrezzi e mi butto sotto
il lavandino che da qualche giorno non funziona più molto bene. Mentre sono
immerso in una riparazione di quelle molto poco professionali ma decisamente
anti conto dell’idraulico squilla il telefono:
“Mi, rispondi tu che non posso lasciare sto coso”
Al nono squillo si degna di rispondere.
“Vla, è Scianca, gli dico che stai aggiustando una cosa, di
chiamare dopo?”
“No passamelo, tanto ormai ho avvitato quel malefico tubo”
“Ciao Scianca che si dice?”
“A giudicare da quanto tempo avete impiegato per rispondere e
dal tuo tono di voce direi che eri intento ad aggiustare Miriam”
“A dire il vero ho le mani bagnate e le ho appena tolte da un
buco, ma non da quello che pensi tu, purtroppo”
Interviene Miriam “Cosa state confabulando porci!”
“No niente, Scianca mi chiedeva cosa facciamo oggi”
Scianca: ”Vladi, veramente io oggi sarei al lavoro, a
proposito di lavoro: che cazzo ci fai in casa non dovresti essere a lavorare
anche tu?”
“Ma se sai che dovrei essere a lavorare che cazzo mi hai
chiamato a fare a casa”
“Oggi vi ho visti in giro, ma perché non sei a lavorare?”
“Ma no, niente, sono malato, non senti come sono malato?”
“Immagino, di quelle malattie tipo scazzo da ufficio”
“Bravo vedo che ci siamo capiti, ma si può sapere perché mi
hai telefonato?”
“Volevo solo sapere se hai il numero di Dado, che stasera ci
dobbiamo giocare mezza tromba su dal Passo. Ha detto che mi dà almeno quattro
secondi”
“Con che macchina viene?”
“Con il Willy”
“Se vuoi ti presto l’ Escort”
“Davvero?
“Ma sei scemo?! Non la presterei neanche a Sainz, figurati a
te che te ne metti di tetto una al mese!”
“Fanculo Vladi ce l’hai ‘sto numero sì o no?”
“Sì, scrivi 3393358742, a che ora è la cosa?”
“Stanotte all’una, partenza dalla chiesa del Fado, vieni?”
“Certo che vengo, altrimenti chi ti porta a casa?”
“Dai Vla, che porti pure sfiga!”
“Ciao Scianca”
“Ciao Vladi”
Miriam: “cosa voleva?”
“Il numero di Dado che stasera si giocano mezzo milione al
Passo”
“Dado è un discreto cane al volante, in teoria dovrebbe stare
dietro”
“Se Scianca riesce ad arrivare in cima sì!”
“Guardiamo il film?”
“OK”
Il pomeriggio scorre con il peso della lenta digestione del succulento pasto. La sera fa’ presto ad
arrivare e con lei si porta le solite domande:
“Vla, che si fa stasera?”
“Boh!? Non saprei, hai qualche idea?”
“No nessuna in particolare e poi scarseggio anche di soldi”
“Mi, non so che dirti, ogni sera e’ la solita solfa, bene o
male in ‘sta schifo di città ci sono poche cose da fare, quindi o ti fai andare
bene quelle o ti fai andare bene quelle!”
“Va beh! Cioè senza che ti scaldi tanto, mi hai fatto passare
la voglia di uscire”
“No! non è questione di scaldarsi o meno, ma semplicemente ne
ho le palle piene di sentirti dire che non sai cosa fare e che vorresti una
cosa nuova , mai fatta prima. Cazzo Miriam è tre anni che usciamo assieme ed è
più di venti che viviamo in questa merda di città, non c'è più niente che non
abbiamo ancora fatto, o meglio non c'è più niente che non abbiamo ancora fatto
e che non costi troppo per farlo! E poi
mi fa incazzare il fatto che solo con me non vuoi mai fare niente, ma se ci
sono gli altri ti va bene tutto”
“Se va beh, Vladi basta che abbia sempre ragione tu!”
“Sì, sì, continua a non affrontarli i problemi ed a tagliare i
discorsi così poi finisce che uno dei due si scogliona, e vedi che qualcosa da
fare lo trovo, ma con un’altra però”
Poi m’infilo l‘eskimo in fretta ed esco sbattendomi la porta
alle spalle. Non riesco a sopportare i capricci
di Miriam, vuole sempre fare quello che vuole lei e nel modo in cui
vuole lei. E’ stata viziata da piccola ad avere sempre tutto come e quando lo
desiderava. Non sa cosa vuol dire adattarsi ad una situazione riuscendo a
divertirsi con il poco che quell’attimo ti può dare. Lei ha sempre bisogno di
gestire la situazione, di averne il controllo; quando e se si rende conto che
questo non puo’ farlo diventa noiosa, capricciosa, assillante e pesante, senza
accorgersi che l’ unico risultato che può ottenere è quello di far irritare ed
innervosire le persone che le stanno accanto, portandole ad essere
intransigenti anche quando non ce ne sarebbe bisogno.
Sò che è un periodo molto strano per me. Dovrei essere
abbastanza contento, ho tutto quello di cui ho bisogno e forse anche di più, ho
una bella macchina, un appartamento mio che in un modo o nell’altro sono
riuscito a far diventare carino, ho un buon lavoro che mi piace e che mi rende
abbastanza da farmi vivere in modo più che decente, ho una ragazza di cui tutto
sommato sono innamorato. Ma forse tutto ciò è proprio quello che non serve,
quello di cui non ho bisogno, il superfluo. E’ proprio qui il problema, ho
tutto quello che sarebbe evitabile ma ho perso il valore della semplicità delle
cose.
Invidio e continuerò sempre ad invidiare quelle persone che
vivono in casette mal costruite su di un’isola andando avanti con quello che
riescono a racimolare; ma lo fanno sorridendo. Loro a differenza di me sono
riusciti a capire dove si trova la felicità, si sono resi conto che c’è sempre
uno scalino da scendere. Sanno bene che per non scenderlo bisogna innanzitutto
avere lo spirito e solo poi le possibilità.
Io e con me quasi tutte le popolazioni così dette civilizzate sappiamo
solo lamentarci, non sappiamo guardare oltre il muro delle nostre esigenze, o
meglio, delle nostre comodità.
Ma questo è un discorso troppo complesso e filosofico ed ora
sono troppo incazzato per riuscire a ragionarci sopra a mente fredda e lucida
come l’importanza dell’idea che in me sta nascendo richiede. Dopotutto
incomincio a credere che ci sia più verità nei giochi e nella fantasia umana
che nella vita di tutti i giorni, recitata come burattini in un baraccone.
Credo che non sempre la vita possa andare come la si è sognata
da bambini, credo che troppe volte ci troviamo a decidere cose che non siamo neanche
in grado di valutare, credo che con un lavoro medio ed uno stipendio medio non
si possa fare molto di più che sognare, ma credo che siano proprio questi sogni
a darci la forza di andare avanti in mezzo ad una frenetica corsa che ci priva
della possibilità di decidere dove e con quali mezzi andare, credo che se
avessimo molto meno apprezzeremmo molto di più, credo che non basti la
fidanzata, la passione o la soddisfazione sul lavoro a tappare quei buchi
lasciati dallo stress delle corse, delle incomprensioni e dei litigi senza
motivo, credo che non basti uno sfogo come questo per farmi guardare il mondo
sotto un aspetto migliore, credo che il mondo di migliore non abbia più un
cazzo da farci vedere, credo che da oggi per tutti quelli che verranno dopo di
noi non ci sarà molto di più che lamentele simili alle mie, credo che ci
facciamo coinvolgere troppo dalla vita dimenticandoci che prima o poi finiremo
tutti sotto una lastra di marmo.
QUINTO LIVELLO
Tra lamentele e ragionamenti filosofici mi sono ritrovato in
macchina, direzione Turchino. Manca ancora parecchio alla scianca e ho ancora
tutto il tempo di bermi un buon Mezcal da Umbro, in cima al passo, e tirarmi
due marce tanto per togliermi di dosso il nervoso che Miriam ed i miei ragionamenti
mi hanno messo in corpo. “Da Umbro” è il
classico bar che si trova in cima a tutti gli scollinamenti liguri. Quattro
vecchietti, sempre gli stessi, che si giocano un bicchiere di rosso alle carte,
qualche giovane abituato alla vita da anziano che si lamenta perché non c’è
lavoro, ma è già all’ennesimo bianchetto della serata ed una montagna di fumo
che impregna i clienti ed i loro vestiti. Ecco questo è “Da Umbro”, ma potrebbe
essere qualunque altro bar di collina.
Mi bevo un paio di Mezcal pensando a cosa potrebbe fare in
questo momento Miriam e scacciando la voglia di telefonarle.
Risalgo in macchina.
Sto scendendo piuttosto lesto quando nel bel pieno di un
curvone molto veloce ti becco Dado completamente fuori mano. In un modo o
nell’altro, non saprei dire esattamente come, riusciamo a non picchiarci
dentro. Scendo bestemmiandogli dietro le dovute madonne. Dado mi spiega che e’
molto nervoso per la scommessa di stasera, sa bene che Scianca è molto più
bravo di lui e che quasi sicuramente gli starà davanti. Dopo avergli dato la dovuta botta di coglione
(voglio dire ci si è giocato mezza zucca mica spiccioli) gli spiego che conosco
molto bene Scianca, anche perché mi ha imbarcato in queste scianche molto volte
più di lui (non a caso lo chiamiamo così), e che di solito tende a sbagliare
l’inserimento veloce dopo la esse del bivio per il campo sportivo.
“Dado o lo passi lì o prega che sbagli qualcosa prima di
arrivare in cima, altrimenti ti dà un minuto pieno”
“Un minuto secco non me lo prendo da nessuno, neanche dai tuoi
duecentocinquanta cavalli Vla!”
“Non istigarmi Dado che ci metto un attimo a salire in
macchina e dartene cinque di minuti”
“Solo perché c’è troppa differenza di motore”
“Io direi di pilota”
“Non ci scommettere”
“Non tolgo mai la pelle al lupo prima di averlo ucciso, ma non
ti preoccupare che avremo modo di spingerci a vicenda”
“Va beh! Vladi vado a provare ancora due curve che tra poco
arriva Scianca.”
“In bocca al lupo”
“Crepi, ci vediamo al Fado”
“Ci sarò”
Chiesetta del Fado ore una e dieci, fa relativamente caldo, ci
saranno quasi cinque o sei gradi. L’illuminazione ad intermittenza del lampione
rotto contribuisce notevolmente ad aumentare l’agitazione di Dado. Il suo Clio
Williams è fermo a lato strada con il motore acceso da quasi dieci minuti e lui
è già alla quinta sigaretta, centocinquantesima della giornata.
Quei quattro amici che sono venuti ad assistere iniziano ad
andare a cercarsi una curva decente per guardarsi in sicurezza la cosa, ed io
incomincio a credere che Scianca non si presenti più; di solito è molto puntuale.
Ore una e venticinque, Dado si è finalmente deciso a spegnere
la macchina, io opto per spostare la mia e metterla in un punto meno a rischio.
Ore una e quaranta, arriva Scianca con la sua Opel Astra Gsi
che fa un casino infernale. Soliti convenevoli, due saluti, quattro battute
cattive su chi arriva in cima per primo o semplicemente su chi ci arriva.
Scianca è molto tranquillo, troppo sicuro di vincere.
Ore due e sette, Dado e Scianca sono in macchina di fronte ad Anto, che deve
dare il via. Si sente Anto che un po’ troppo euforico urla:
cinque, quattro, tre, due, uno...
Sia Dado che Scianca non gli danno il tempo di terminare che
partono lasciando due dita di gomme sull’asfalto. Da dove sono io si vedono sì e no una decina di curve, ma non ce
n’ è stato il caso.
Alla quarta curva Dado che era davanti si allarga troppo per
impostare un novanta gradi molto secco e Scianca si gioca l’infilata in
staccata all’interno; è troppo alla corda per tenere una traiettoria decente!
La macchina s’ intraversa, scoda sul rail, e si gira di tetto!
Fine della serata e fine di un bel gioco!
Solo un paio d’ore più tardi è arrivato il carro attrezzi,
seguito naturalmente, da una volante.
Solite spiegazioni del tipo: non andavamo forte, mi sono addormentato, no
guardi la patente mi serve per lavorare, etc, etc, etc.
Ore quattro e ventidue: Dado e Scianca se ne vanno assieme sul
Clio di Dado, entrambi con un verbale da infarto. Io e gli altri, quasi più
delusi di Scianca che ha sfasciato la settima macchina in due anni, facciamo lo
stesso.
Me ne torno a casa molto tranquillo, velocità anti velox ed
anti verbale. Arrivato in casa, appoggiata sul cuscino del letto bene in vista,
trovo una lettera di Miriam. La lettera è estremamente lunga, ma riassumendola
posso dire che è un suo esame di coscienza, dal quale trae la conclusione che
lei è in piena ragione e che io ultimamente sono diventato irascibile ed
insopportabile, che sono sempre nervoso e che basta un niente per farmi perdere
la pazienza.
Mica che abbia scritto anche solo una riga sul fatto che
forse, magari, anche solo un pochino di colpa potrebbe averla anche lei! No la
signorina Perfetta ha sentenziato: colpa mia! Ma non me ne frega un cazzo, che
faccia un po’ quello che le pare, che si faccia dare da un altro almeno la
smette di tritare i coglioni a me.
O perlomeno questo è quello che tento di farmi credere, quello
che è più conveniente pensare, almeno così non fa male, non c’è il rischio di
dover fare discorsi chilometrici che si rivelerebbero inutili e stancanti.
Prima o poi le passerà!
Mi cambio e m’infilo in letto aspettando di addormentarmi. Il
sonno tarda ad arrivare, ma al suo posto ci sono milioni e milioni di
pensieri...
Salute, amore, bellezza, lavoro, affari, tutti parlano, tutti
sentenziano, tutti vogliono… corrono ma alla fine chi veramente avrà capito
qualcosa? Boh?! Forse tutti, forse
nessuno, o forse semplicemente chiunque abbia una passione, un desiderio,
chiunque riesce a guardare un po’ più in
la . Il mondo si sta scordando la semplicità, si sta dimenticando cosa voglia
dire vivere! Oggi tutti pensano al lavoro, alla famiglia, alla casa, alla
macchina, ma nessuno pensa mai a vivere. E gli istinti? Dove sono finite le
voglie le utopie ed i sogni tutti? Beh! Forse
quelle vengono raccolte in un altro pianeta dove ancora c’è spazio per loro. I
desideri in questo mondo non hanno più peso, il dolce sognare ha lasciato posto
ad un pensiero materialistico e senza fantasia. Tutti pensano e ragionano,
tutti rincorrono un improbabile futuro ed un insoddisfacente presente, dove
l’unica utopia e’ la terrena banalità quotidiana. La poesia e l’arte sono
diventate territorio di pazzi e falliti, l’unica espressione consentita e’
quella che parla di lucro. Ma perché la gente non si ferma un attimo e prova a
pensare, prova a ragionare con la propria testa per rendersi conto che a questo
mondo c’è ancora bisogno di vita! Perche’ non la smettono di correre per
accapparrarsi una certezza, per aggrapparsi a qualcosa di solido dalla quale
trarranno solo nervoso e stress.
FERMATEVI!
Fermatevi un attimo ed in silenzio apprezzate la semplicità
della parte folle ed irrazionale della vostra mente. Fermatevi e capite che non
tutto e’ fattibile razionalmente. Provate almeno una volta ad uscire dagli
schemi per entrare in un mondo fantastico ove non ci sono regole. Un posto dove
tutto e’ lecito, dove non c’è metrica di linguaggio, dove non c’è obbligo di
lavoro, dove non si trova tutto in scaffali e perfettamente ordinato, dove il
dotto ha ancora molto da apprendere e dove l’ipocrisia non regna. Un luogo dove
sognare e’ una virtù !!!! Uscite dagli schemi quotidiani per immergervi in un
dolce cullarvi di curve e suoni, ed il più improbabile dei vostri sogni diverrà
realtà.
Non ci sarà il male dal quale dovrete riguardarvi, anche se
affascinanti non ci saranno tentazioni dalla quale dovrete fuggire, perché
l’abbandono al delirio della mente sarà cosa banale, e soprattutto non ci sarà
il bene a dettar legge o un esempio da seguire. L’unica legge sarà dettata da
voi stessi e dal vostro incondizionabile io!
Ma voi non potete capire, voi che in questo momento starete
correggendo i miei errori ortografici, voi che starete pensando che domani vi
dovete alzare presto ed e’ quasi giunta l’ora di andare a letto. Voi che non
avete accanto un bottiglione di vino ed un pacchetto di sigarette vuoto, voi
palestrati quasi perfetti che non vi siete mai concessi il dubbio dell’errore.
Voi dal telefonino squillante e la moglie tutto culo e tette perfetti ma niente
anima… solo corpo e possibilmente da fottere. Voi che avete un bel lavoro,
giacca, cravatta e Rolex, voi che vi fate i regali sorridendo e diventate più buoni a Natale,
voi che sorridete al capo che vi abbassa lo stipendio e aumenta il lavoro. Voi
che non volete capire che l’implicito dentro al semplice ci può stare, voi che
cercate in terra perché in aria non ci sapete andare, tenetevi i soldi ma
lasciatemi volare!
Sì Morfeo, mi sono sfogato adesso sono pronto.
SESTO LIVELLO
Ore nove.
Sento lontano un tic, quello dello stereo che si sta per
accendere. “Come vibrando una molla mi
vien la tremarella ballando...” I
Persiana Jones attaccano, e con loro anche una nuova giornata. La voglia di non
andare al lavoro dettata dal sonno è tanta, ma dopotutto Luigi (così si chiama
il protagonista del mio gioco) mi sta aspettando, ha bisogno di me per riuscire
a terminare la sua impresa e raggiungere il paradiso della tranquillità e la
pace del proprio ego. Non manca molto alla presentazione del gioco, al lancio
ufficiale, ed io ho ancora molto lavoro da fare. Credo nel mio gioco e credo
nella sua riuscita. “The black ship” non può fallire, va a stimolare il sogno
remoto di libertà che ognuno di noi reprime dentro sé stesso. Luigi è nato per
dare ai giocatori, anche se solo per poche ore, l’illusione di aver staccato,
di essere riusciti ad andare oltre. Oltre la monotonia dei gesti quotidiani,
oltre le piccole e snervanti liti familiari sempre per gli stessi argomenti,
sulle stesse piccole incomprensioni. Luigi nasce per portarti dove la tua
fantasia è gi arrivata da tempo, ma il tuo corpo, la tua razionalità e la tua
influenzata coscienza non ti lasciano andare. Luigi è lo sfogo di ogni persona
normale che fa un lavoro normale, che ha una moglie normale, che vive in una
casa normale, in una città normale e che ha un conto in banca normale. La
normalità è la malattia del duemila, e può essere calmata o portata allo stremo
solo da uno strumento che ha contribuito a generarla. Luigi è per le persone
normali come la morfina. “The black ship” ti da quella boccata d’illusione
ossigenatrice che non si può rifiutare, che ti allevia il dolore. E’ la tua
personale flebo rivitalizzante!
La mia giornata al lavoro scorre più o meno lenta, come al
solito. Oggi Miriam non si è fatta sentire, il telefonino non ha squillato all’
alba delle pausa pranzo, ed io di certo
non mi sogno neanche di chiamarla. Dopo quello che mi ha scritto in quella
lettera anche se sapessi di avere una piccola percentuale di colpa, non la
chiamerei. Deve capire che le rinunce siamo in due a farle, per una vita in
due. Finita la pausa pranzo il principale convoca me ed i programmatori che mi
seguono nel mio gioco per una riunione straordinaria per fare il punto della
situazione; o come lo chiama lui… breefing multidirezionale. Apre la riunione
nel più sbagliato dei modi:
“Ragazzi di merda da inghiottire ce n’è ancora tanta, non
credete che nonostante Vladimiro abbia avuto una buona idea ed i programmatori
stiano facendo un buon lavoro si possa credere di essere ad un buon punto.
L’azienda deve ancora crescere e con lei il suo fatturato.” Dopo un esordio
simile non ho potuto far altro che alzarmi e dirigermi verso la porta d’
uscita.
“Vladi ma dove cazzo vai?!”
“Dopo il discorso che ha appena fatto non posso fare altro che
andarmene. Non ho intenzione di starmene qua a sentire lei che mi viene a dire
che devo rompermi il culo per farla guadagnare come un porco, mentre a me mi da
uno stipendio da fame.”
“Signor Vladimiro non ti permetto di rivolgerti a me in questo
modo. Se non fosse per me tu non solo non saresti un grafico, ma ancora meno
avresti potuto far uscire un game firmato da te!”
“Innanzitutto si dice gioco, non game, siamo in Italia; e poi
di certo non mi sento di doverle della gratitudine, per cosa poi?! Per avermi
permesso di lavorare qui per tutti questi anni sottopagato, o per non avermi
mai messo in regola, o forse per non avermi mai pagato gli straordinari, le
assenze per malattia o gli infortuni? Per quale di queste cose dovrei esserle
grato? No, mi dispiace non credo di doverle ne gratitudine ne tantomeno stima.
E con questo per me la riunione è finita, del resto non c’è mai stato niente da
dirsi, il gioco le posso garantire che sarà pronto e testato per la data
stabilita. Se mi cercate sono nel mio ufficio!!!!!!!”
“Vladimiro ringrazia solo che ho ancora bisogno di te, perché
se così non fosse saresti già in mezzo ad una strada”
Me ne torno nel mio ufficio e senza rispondere alle domande
delle mie colleghe su cosa è successo, mi rimetto a lavorare. Ormai sono alle
fasi finali del gioco, tra quindici giorni c’è la presentazione ufficiale a
Milano. Un gran giorno quello della presentazione, ci sarà la stampa, i più
grandi critici di videogiochi, tutti i manager rampanti con pancetta ed
orologio sul polsino, le loro mogli ingioiellate da paura con dei vestitini da
qualche milione che useranno solo per quella sera. Una sola nota positiva: il
buffet.
Tutti si aspettano che per quella sera io mi metta in gran
tiro, giacca cravatta, tutto leccato per bene; ma non sanno che mi presenterò
con il mio fedelissimo camicione ed i miei jeans sbiaditi ed usurati dagli
anni. Non vedo l’ora!
La giornata in ufficio fortunatamente finisce presto e presto
me ne torno a casa senza essere salutato nè da quell’idiota panciuto del mio
principale, nè tantomeno da quei leccaculo dei programmatori, che mi guardano
schifati quasi fossi un lebbroso. Brutta affermazione questa, bisognerebbe
aprire un’organizzazione in merito a favore dei lebbrosi. Il viaggio di
ritorno, che di solito mi consola, si rivela uno schifo facendomi rimanere
bloccato in autostrada per quasi due ore a causa del cappottamento di un
camion. Appena arrivato a casa ho l’ennesima brutta notizia: trovo sul tavolo
la copia delle chiavi di casa che usava Miriam con un biglietto quantomeno
esplicito:
“Grazie ed arrivederci”.
Non ci credo, non posso credere che abbia deciso di mandare in
fumo una storia di tre anni solo per quello stupido litigio. Beh! Forse di
litigi ultimamente ce n’è stato qualcuno di troppo è vero, ma sicuramente
niente di così drastico, niente che non potesse essere risolto o chiarito. See,
parlo di chiarimenti, io che non ho voluto neanche chiamarla per provarci a
chiarire. E’ vero, era lei che avrebbe dovuto farlo, ma forse io avrei anche potuto
mettere da parte quel fottuto orgoglio e salvare quell’unica cosa a cui forse
tenevo ancora tanto, troppo per perderla così su due piedi, senza preavviso.
Stappo una bottiglia di Mezcal, le do fondo e vado a letto.
La mattina seguente non sento neanche lo stereo e mi alzo con
più di un’ora di ritardo ed ancora ubriaco dalla sera precedente. Un pensiero
in testa ben presente. NON HO PIU’ MIRIAM!
Mi fiondo al lavoro nel quale mi immergo per l’intera
giornata. Luigi in un modo o nell’ altro è riuscito a tenere lontano il
pensiero di Mi’ per quasi una decina d’ore! Finisco di lavorare molto tardi,
circa le otto e quaranta, così decido di fermarmi a mangiare fuori. Prendo il
telefono, compongo il numero e la chiamo. Solo quando sento la sua voce
rispondermi riesco a rendermi conto che lei non fa più parte della mia vita,
non ci sarà più al mio fianco a cena o nel letto o in qualunque altro momento
della giornata. Interrompo la chiamata e scoppio in lacrime come un bambino
piccolo. Vado a cena in un locale nuovo, dove nessuno mi conosce e nessuno può
chiedermi come va. Ordino qualcosa a caso del menù che mangio senza neanche
rendermene conto e senza neanche accorgermi di che sapore ha, bevo un paio di
caraffe di vino, pago il conto ed esco velocemente. Prendo la macchina
faticando per uscire dal posteggio, sono di nuovo ubriaco, e mi dirigo verso il
“bosco degli Ulivi” dove io e lei abbiamo passato molto tempo insieme. No, non
posso martoriarmi così, devo trovare una variante, qualcosa che mi distragga,
che non mi ci faccia pensare.
Faccio un giro per la riviera e mi ritrovo in un Pub
dell’entroterra savonese:” La Taverna degli Indiani” o un nome simile. Faccio
subito amicizia con il barista, un tipo molto giovane, simpatico, decisamente
ci sa fare.
Un giro lo pago io, un giro lo offre lui ed è partita quasi
una bottiglia di Mezcal. Quando bevi in compagnia di persone così simpatiche il
tempo ti vola, e ridendo e scherzando si sono fatte quasi le quattro e venti.
Grazie ad Alessandro, il barista, e al Mezcal sono riuscito a non pensare a
Miriam. La strada del ritorno è molto più lunga del previsto, anche per colpa
di qualche sosta di troppo per vomitare anche l’anima. Verso le sei sono a casa
e mi addormento senza pensare a lei, forse sono troppo ubriaco per farlo. Tre
ore dopo lo stereo si accende e a me sembra che invece dei Persiana Jones
stiano suonando le campane dell’inferno.
Un mal di testa atroce, un pastone in bocca da far paura ed un
rincoglionimento tale da far fatica a trovare la strada del bagno. La giornata
al lavoro scorre esageratamente lenta, fra mal di testa, sigarette e le facce
schifate dei miei colleghi che mi guardano come se mi fossi appena fatto un
buco. E’ inutile provare a spiegargli il mio stato d’animo, sono troppo
razionali e puliti per capire come una situazione del genere possa, a volte,
farti stare meno male di quanto il tuo fisico si senta. Verso le quattro e
quaranta, quando la mia giornata lavorativa è ormai finita, la mia collega mi
passa una telefonata.
“Chi è?”
“Non so, è una voce femminile”
Che sia Miriam? No impossibile, lei sicuramente non si
abbasserebbe mai a chiamarmi, in ufficio poi...
“Pronto?”
“Vladi?”
“Sì sono io, con chi parlo?”
“Ciao Vla, sono Alessia, senti ti dovrei parlare un minuto in
privato, quando posso beccarti da solo?”
“Ciao Ale, quando vuoi, anche questa sera se per te va bene”
“Ok fai un passo da me dopo cena?”
“Ok verrò per le nove, nove e venti”
“Ti aspetto”
La mia vicina mi vuol parlare, che sappia di me e Mi’ e voglia
approfittare della situazione? Beh! Ammesso che ci riuscirebbe non è comunque
nel suo stile, e poi a casa sua... ci sono anche i suoi. No non credo proprio.
Nel frattempo arrivano le cinque e con loro l’ora di andarsene
a casa. Prima però faccio un salto a salutare i vecchi amici che non vedo da un
sacco. Arrivo di fronte al Bar dove di solito loro si ritrovano, posteggio e li
vedo lì, seduti al solito tavolino con la solita birra nel bicchiere e la
solita sigaretta in mano. Non sono cambiati, sempre le stesse schiene dritte,
che di lavorare non se ne parla proprio.
“Ueilà, chi non muore si risente!”
“Ciao Vladi, finalmente ti fai vivo! come te la passi”
“Così, si tira avanti”
“Beh! Visto con che macchinino ti presenti si direbbe che ti
vada bene”
“Va e basta”
“E allora sto giro di aperitivi ti tocca”
E tra un Campari corretto Gin ed un Bitter corretto Vodka, le
solite frasi.....
Come stai? Stai sempre con quella tipa? Che fai nella vita? Ma
si guadagna? A donne come va? Sei già stato in quel locale nuovo che hanno
aperto in centro?
E fra falsa gioia di rivedersi e risate ipocrite la serata e’
passata. In compagnia di persone che di rivedermi non gli fregava nulla, ma che
con due sorrisi falsi e qualche rimembranza di tempi passati si sono guadagnati
qualche bicchiere a scrocco.
Prima di andare a casa passo dal Take & Way cinese a
comprarmi un qualcosa che possa avere una parvenza di cena e me la filo a casa.
Le nove si avvicinano e la mia curiosità aumenta. A dire il vero più che
curiosità forse è speranza. Speranza che Alessia ci provi ancora una volta,
speranza che le mie continue negazioni non le abbiano fatto troppo cambiare
idea sul mio conto, speranza che questa volta possa farmi quella trombata che
da troppo tempo è stata soffocata da una correttezza che come al solito,
puntualmente, si rivela inutile e sprecata. Speranza di poter fare una piccola
pazzia, una pazzia che non ti dimentichi facilmente. Una pazzia
centodiecisessantanovanta. Casa, doccia, cena e via di corsa a citofonare a
Miri... Alessia. Era da un sacco di tempo che non mi sentivo così, ansioso ed
eccitato come un quattordicenne la prima volta che slaccia i jeans alla sua
ragazza senza prendersi un ceffone; e lo ammetto anche un pochino impaurito.
Suono il campanello di casa sua con la mano quasi tremante.
Apre lei la porta, jeans elasticizzati color nero, maglia attillata bordeau,
camicione nero aperto sopra la maglia, capelli legati con la coda alta e due
treccioline di capelli sciolti che scendono dalla fronte lungo il viso quasi a
delinearne i bellissimi lineamenti, poco trucco per non rovinare quello
spettacolo naturale dei suoi occhi. Semplicemente perfetta!!!!!
“Ciao Vladi entra!”
“Ciao Ale come va?”
“Tutto ok, vieni di la in salotto che ci sediamo un minuto,
Miriam l’hai lasciata a casa?”
“No, non proprio, poi ti spiego.”
“Ma uscite ancora assieme vero?”
“Perchè me lo chiedi?”
“Cosa bevi Vla?”
“Quello che ti capita per le mani, meglio se ti ci capitasse
del Mezcal, ma perché mi hai fatto quella domanda?”
“Mi spiace non ne ho Mezcal”
“Whisky va benissimo lo stesso grazie, Ale... rispondimi,
perché quella domanda?!”
“Così semplicemente per curiosità, siccome di solito siete
sempre assieme ed oggi non l’ho vista con te”
“Ok, facciamo finta di crederci, mi avevi accennato che mi
dovevi parlare”
“No dai Vla, siamo grandicelli tutti e due ormai, è inutile
che ce la stiamo a raccontare, ti volevo parlare di Miriam; ci esci ancora o
no? “
“NO! Perché?”
“Sai l’ho vista ieri con un tipo”
“Chi?!”
“Non so chi, uno grosso, pieno di piercing e tatuaggi, un caccaro da paura, il classico
faccia da schiaffi. Mi sarebbe scazzato che ti facesse becco così
spudoratamente, se non te lo avessi detto non me lo sarei perdonato”
“Beh! Grazie dell’amicizia e dell’informazione ma purtroppo
non usciamo più assieme, può anche vedersi con un altro. Anche se a dire il
vero mi viene il dubbio che allora si ci vedesse anche prima”
“Non lo so Vladi, questo proprio non te lo so dire, se vuoi
posso vedere di informarmi”
“No grazie lascia perdere, se scoprissi qualcosa non lo
reggerei”
“Senti Vladi,” e mi da la mano “Io e te siamo amici, non
vorrei sembrarti una che se ne esce con frasi fatte o di cortesia, però capisco
che per te non sia un buon momento, se ti serve qualcuno con cui parlare, un
favore, qualunque cosa... sono qua”
Mi volto e ci fissiamo dritti negli occhi per qualche eterno
secondo. Bacio! E dopo il bacio lei mi fissa ancora, con quegli occhioni
contenti, allegri, euforici, di una bambina che finalmente ha ricevuto la sua
prima bambola. E con un espressione tanto dolce quanto intrigante mi dice:
“E’ di questo che hai bisogno adesso?”
“Non lo so, ora come ora ho bisogno di qualcuno che mi dica
che esisto, che anche io sono a questo mondo e che ci sono anche per lui”
E poi un altro bacio e poi un altro ed un altro ancora...
Continua a guardarmi con un aria terribilmente dolce e
maledettamente consapevole che per
questa sera è libera di fare qualunque
cosa senza che io mi dilegui scazzato. E quell’aria quasi ingenua continua ad
averla anche mentre le tolgo la maglia e si accorge di come sbigottito fisso il
suo corpo così perfetto, così bello e liscio da sembrare disegnato.
Nel corso della serata ho piacevolmente scoperto che Alessia è
tanto bella quanto passionale e sopratutto che i suoi non erano in casa. Mi
ritrovo ad andarmene dopo esserci salutati con atteggiamenti, gesti e sguardi
da due pivelli innamorati. Dentro di me ho un brutto rancore nei confronti di
Miriam mischiato ad una grande euforia per aver conosciuto un’Alessia capace di
così tanto.
Arrivato a casa mi infilo direttamente in letto ed incomincio
a riflettere. Devo chiarirmi le idee, ma non ci riesco, il tempo passa e non
riesco a capire se questa sera ho fatto l’amore con Miriam o con Alessia. E’
ancora troppo presto perché il buco si possa colmare, non vorrei che Ale fosse
per me un nuovo chiodo per schiacciarne uno vecchio. Questa sera ho scoperto
che non se lo meriterebbe. Alessia è talmente dolce, talmente da vivere che
riesce ad appannarmi la vista. Alessia Miriam, Miriam Alessia, chi lo sà. Solo
una cosa è certa domani inizia la fase collaudo di “The Black Ship” ed io
dovrei avere la mente sgombra da tutto il resto.
La mattinata comincia abbastanza bene con il principale
decisamente euforico ed il morale dell’intero ufficio abbastanza alto. Io, i
programmatori, i grafici che mi hanno aiutato, e quasi tutto l’intero ufficio
passiamo la giornata a giocare con Luigi, cercando anche il più piccolo
difetto, la minima imprecisione e tutto quello che possa non dare a “Tha black
Ship” il successo meritato. La giornata di collaudo si conclude bene, il gioco
è pronto, fra pochi giorni l’inaugurazione a Milano. Torno a casa finalmente
contento, quasi impaziente di rivedere Alessia, e soddisfatto del tempo perso e
dei sacrifici che il mio gioco mi ha imposto. Appena uscito dal casello autostradale
di Genova Pegli mi imbatto nel solito traffico quotidiano, che stranamente non
riesce ad innervosirmi come di solito succede. Impiego la mia solita
mezz’oretta per percorrere si e no tre chilometri e finalmente arrivo sotto
casa. Infilo la macchina nel box e salgo in casa molto alla svelta, doccia
veloce e rigorosamente sigaretta da relax con un sottofondo del buon vecchio
Liga. Sto quasi un’ora sdraiato sul letto, non so nemmeno io perché, mi va di
pensare. Penso a cose brutte, tristi e malinconiche tentando di convincermi che
appartengano solo al passato e penso a cose calde, allegre e materialmente
molto belle sperando di convincermi che siano meglio del passato. Il trillo del
campanello di casa interrompe le mie riflessioni. E’ Alessia: “ Ciao bello
com’è?”
“Bene, una giornata complessivamente positiva, Tu?”
“Abbastanza bene”
“Perché abbastanza?”
“Oggi mi ha telefonato l’agenzia dicendomi che mi salta una
sfilata per un importante stilista. Ci avrei potuto tirare su un bel po’ di
soldi”
“Perché è saltata?”
“Problemi interni, non si sono accordati fra di loro; senti un
po’ che fai adesso?”
“Niente di particolare perché?”
“Ti va di mangiare fuori?”
“Volentieri, dove?”
“Non so. Hai qualche idea?”
“Conosci l’Illusion?”
“Me ne hanno parlato, mi vado a preparare”
“Ti aspetto”
“Mettiti pure comodo, mi ci vorrà un po’ “
“Non esagerare che ho una fame da lupi”
“Devo esagerare, è la prima volta che usciamo assieme, devo
essere perfetta”
La dolcezza e la sincerità con cui ha detto queste parole mi
hanno lasciato veramente di merda. Sono rimasto lì a fissarla con quel
sorrisino da perfetto imbecille, allibito da come lei così bella e perfetta
voglia e possa essere impeccabile solo per me. Non sono abituato a sentirmi
importante. Riaccendo lo stereo: “Tempo di cambiare” dei Kina, mi preparo anche
io, anche se di solito non mi preparo mai più di tanto. Il mio concetto di
“vestirsi bene” è molto particolare: anfibi 16 buchi con rigorosi lacci rossi,
salopette marroncino chiaro in velluto a coste francesi con tasconi e bretelle
rovesciate in vita, maglia di pail marrone scuro con cappuccio enorme, giacca a
camicione in velluto nero e capellino di lana nera legato in punta. Barba
fatta, pizzo escluso e scorta di sigarette. Eccomi, ora sono pronto. Passano
ancora quasi quaranta minuti quando lei citofona. Scendo le scale molto
velocemente, un po’ per la curiosità di vederla ed un po’ per la fame che la fà
da padrona. Lei è lì, davanti a me, appoggiata sul portone; esageratamente,
infinitamente, meravigliosamente bella!
Vestito corto, molto corto, di lana grigia, calze a strisce
nere sottili e grigie spesse, capotto lungo nero slacciato, capelli legati con
la coda alta e due ciuffi che scendono in viso, anfibi alti ma allacciati solo
fino all’ottavo buco con padella rovesciata, sciarpa multicolori scura che si
posa sulle spalle e sul seno accentuandone le prorompenti forme ed un pizzico,
poco, di trucco. Praticamente la Aidi dei sogni erotici di ogni ventiduenne che
si rispetti.
“Allora Vladi, andiamo che ho fame! “
“Dillo a me, stavo fissando quei poveri passerotti sugli
alberi di fronte al mio poggiolo con aria cannibalesca.”
“Non sarà stato meglio prenotare? “
“No, fidati in settimana non è il caso”
Saliamo in macchina, e dopo poche centinaia di metri mi
accorgo che l’anatomicità dei sedili tende a farle intravedere la fine delle
calze, autoreggenti.
Piccola erezione.
“Vladi non sono mai stata su una macchina sportiva come
questa, va forte? “
“Un po’, ma se hai paura basta che me lo dici, io sono di
quelli che vanno pianissimo se hanno al fianco qualcuno che ha paura”
“No, no, vai come ti pare. Certo che ‘sti sedili saranno anche
da gara ma sono scomodi da panico”
“Non sono scomodi, sono sportivi! “
“Sì, ma mi fanno vibrare il sedere”
“C’è chi paga per i massaggi rassodanti e tu li hai gratis.”
“Spero di non averne bisogno, non ancora perlomeno.”
“No, forse no! “ Figura
di merda.
Accendo la radio lasciando il cd che già era inserito:
“Parnassius” di Guccini. Dopo poco, a metà di: “Nostra Signora dell’Ipocrisia”
mi accorgo che lei sta canticchiando sottovoce.
“Ti piace Guccini? “
“Lo adoro, è un genio! “
“Ma va! Grande! Anche io adoro Guccini, pensa che avrei dovuto
andare al concerto ma da solo mi scazzava, ho già i bilglietti, vieni!? “
“Al mio posto avrebbe dovuto esserci Miriam vero? “
“A dire il vero i biglietti me li ha regalati lei... è un
peccato buttarli, però se ti scazza fa niente”
“A te scazza che ci sia io al suo posto? “
“Vuoi la verità?! Lei odia Guccini! Sarebbe stata una palla al piede
“Alessia scoppia ridere.
“Ok ci vengo”
SETTIMO LIVELLO
Nel frattempo siamo arrivati davanti all’Illusion. Di fronte a
noi la città illuminata e vista dall’alto impone quell’atmosfera molto
intrigante che è quasi d’obbligo in serate come questa. Entriamo all’interno
del locale dove l’unica luce forte è data dal bagliore della città riflesso nel
cielo. Il cameriere, un tipo dall’aria poco sveglia, ci assegna un tavolo
vicino alla vetrata; lo stesso dove mi ero seduto l’ultima volta che sono stato
qui, che sfiga!
La cena comunque promette bene, il suo buon umore e l’allegria
che riesce ad importi scacciano la malinconia che quel tavolo mi aveva dato.
Lei è una tipa molto strana, nonostante sia una gran strafiga riesce sempre a
metterti a tuo agio, ha un’aria così infantile, sembra una bella bambina
cresciuta che deve ancora rendersi conto di dove può portarla il suo fisico;
però quando deve, sa essere una vera professionista, una con le palle, una che
se vuole ti imbarca e ti fa girare sopra la punta del dito come e quando le
pare. Alessia è la classica ragazza con la quale si può parlare di qualsiasi
cosa, non la imbarazza nessun argomento, è sempre così sincera e così spontanea
che riuscirebbe a palare con un sordo senza metterlo in imbarazzo. La cena con
una persona così, inutile dirlo, è scivolata via sottraendo del tempo alle
nostre conversazioni. Quando usciamo dal locale senza neanche porci il solito
problema di dove andare, saliamo in macchina e lasciando scegliere a lei dove
portarci. In macchina le conversazioni continuano e parla che ti riparla ci
troviamo sulla spiaggetta di Bogliasco. E’ una spiaggetta sulla quale si può
arrivare con la macchina, e facendo un po’ di attenzione a non
impantanarsi si riesce ad attraversarla
e raggiungere il piccolo molo, posteggiando così a pelo dell’acqua con la
precisa sensazione di trovarsi in mezzo al mare.
“Non lo conoscevo questo posto, ci venivi spesso con lei?”
“No, Miriam non avrebbe mai apprezzato un luogo così, per lei
il dialogo ed il romanticismo non esistono, non è mai stata capace di formulare
una frase dolce o di farmi qualche carezza. Se l’avessi mai portata in un posto
come questo, dopo pochi minuti trascorsi in assoluto silenzio mi avrebbe detto
che si annoia, di andare da un’altra parte. Che so, magari a casa a vedere la
televisione. “
“O tu non sei quello che mi sei sempre sembrato oppure non
capisco coma hai potuto resistere così a lungo con una persona così diversa.”
“No, semplicemente frequentare una persona così opposta a sè
stessi spesso aiuta. Io ho un carattere molto strano, se non avessi un qualche
aggancio con la realtà mi perderei nei miei sogni e nella mi fantasie;
annebbierei la visione del reale distorcendola con dell’euforia non
giustificata. Miriam era per me lo specchio del normale, le realtà di tutti i
giorni, la banalità che si propone a ricordarmi che non si può vivere la vita
come si scrive quella di un gioco. “
“E’ triste Vladi! Non puoi vedere le cose solo sotto un
aspetto così distorto. Nella vita non esiste solo il vero o la fantasia; le due
cose si possono anche mescolare. Bisogna riuscire a sfruttare la parte cinica e
materiale della propria vita per costruirsi le possibilità e le condizioni per
poter trasformare i sogni in realtà.”
Mi guarda con quei suoi occhioni, e sembra capire che il discorso stava andando troppo sul filosofico rischiando di rovinare quella che era e doveva restare un’allegra serata. Si sposta verso di me raggiungendo con la mano la leva che abbassa il sedile, mi sale sopra ed inizia a baciarmi mentre con l’altra meno passa sotto pail e salopette.
Mi guarda con quei suoi occhioni, e sembra capire che il discorso stava andando troppo sul filosofico rischiando di rovinare quella che era e doveva restare un’allegra serata. Si sposta verso di me raggiungendo con la mano la leva che abbassa il sedile, mi sale sopra ed inizia a baciarmi mentre con l’altra meno passa sotto pail e salopette.
Ore sette e trentanove: il telefonino di Alessia non la smette
più di squillare, ci svegliamo ci
rendiamo conto di essere ancora in macchina; è giorno, lei risponde al telefono
cercando in qualche modo di placare le ire di suo padre. Ci vestiamo alla
svelta; accompagno Alessia a casa e mi precipito a lavorare.
ERROR
Questo programma ha eseguito un operazione non eseguibile e
verrà terminato
FLOP
Ma noooo, ma dai cazzo, non puoi essere così bastardo! Dio
come odio questi computer di merda, che s’inchiodano sempre. Oltretutto
l’ultimo salvattaggio l’evevo fatto appena arrivati sul molo; cazzo. Ora mi
tocca rifarmi tutto quel pezzo!
demo
inizia
nuova partita
pausa
riprendi
partita
salva
carica
salvataggio
esci
“Non lo conoscevo questo posto, ci venivi spesso con lei?”
“No, Miriam non avrebbe mai apprezzato un luogo così, per lei
il dialogo ed il romanticismo non esistono, non è mai stata capace di formulare
una frase dolce o di farmi qualche carezza. Se l’avessi mai portata in un posto
come questo, dopo pochi minuti trascorsi in assoluto silenzio mi avrebbe detto
che si annoia, di andare da un’altra parte. Che so, magari a casa a vedere la
televisione. “
“O tu non sei quello che mi sei sempre sembrato oppure non
capisco coma hai potuto resistere così a lungo con una persona così diversa.”
“No, semplicemente frequentare una persona così opposta a sè
stessi spesso aiuta. Io ho un carattere molto strano, se non avessi un qualche
aggancio con la realtà mi perderei nei miei sogni e nella mi fantasie;
annebbierei la visione del reale distorcendola con dell’euforia non
giustificata. Miriam era per me lo specchio del normale, le realtà di tutti i
giorni, la banalità che si propone a ricordarmi che non si può vivere la vita
come si scrive quella di un gioco. “
“E’ triste Vladi! Non puoi vedere le cose solo sotto un
aspetto così distorto. Nella vita non esiste solo il vero o la fantasia; le due
cose si possono anche mescolare. Bisogna riuscire a sfruttare la parte cinica e
materiale della propria vita per costruirsi le possibilità e le condizioni per
poter trasformare i sogni in realtà.”
Mi guarda con quei suoi occhioni, e sembra capire che il discorso stava andando troppo sul filosofico rischiando di rovinare quella che era e doveva restare un’allegra serata. Si sposta verso di me raggiungendo con la mano la leva che abbassa il sedile, mi sale sopra ed inizia a baciarmi mentre con l’altra meno passa sotto pail e salopette.
Mi guarda con quei suoi occhioni, e sembra capire che il discorso stava andando troppo sul filosofico rischiando di rovinare quella che era e doveva restare un’allegra serata. Si sposta verso di me raggiungendo con la mano la leva che abbassa il sedile, mi sale sopra ed inizia a baciarmi mentre con l’altra meno passa sotto pail e salopette.
Ore sette e trentanove: il telefonino di Alessia non la smette
più di squillare, ci svegliamo ci
rendiamo conto di essere ancora in macchina; è giorno, lei risponde al telefono
cercando in qualche modo di placare le ire di suo padre. Ci vestiamo alla
svelta, accompagno Alessia a casa e mi precipito a lavorare.
La giornata in ufficio, come si può facilmente intuire, non è
delle migliori; il sonno attanaglia il mio cervello impedendogli di lavorare
come si deve, il principale continua pesantemente a tenermi il fiato sul collo
perché ha deciso che il mio gioco deve a tutti i costi fargli ingrassare il
portafoglio, e la mia collega continua a tritarmi i testicoli perché non vuole
che fumi in ufficio. Mezzogiorno e mezzo si avvicina e con lui anche la mia
pausa pranzo. Finalmente si mangia! Prima però decido di telefonare ad Alessia
per vedere cosa ha detto suo padre e scopro che è riuscita a cavarsela con una
banale scusa. Inserisco in un pc il cd
di “The black Ship” e ci gioco un po’. Sarà anche una deformazione
professionale ma io non riesco a trovarci difetti, neanche ad essere pignolo;
credo proprio che siamo pronti per il grande lancio. Termino la mia giornata
lavorativa, mi metto in tasca uno dei cd prova del gioco ed esco. Telefono ad
Alessia mentre sono in autostrada chiedendole che intenzioni aveva per la serata.
Mi dice che e’ parecchio stanca perché oggi pomeriggio ha avuto una giornata
piuttosto pesante, palestra, piscina e corsa; preferirebbe stare in casa. Le
dico che se per lei va bene io dovrei far provare il gioco al mio collaudatore
ufficiale.
“Chi sarebbe il tuo collaudatore ufficiale Vladi? “
“Hai presente Matteo, il figlio della nostra vicina
dell’ultimo piano?“
“Ma ha poco più di sei anni !“
“Ne ha nove per l’esattezza, e poi chi meglio di un bambino
che passa l’esistenza davanti al computer potrebbe trovarmi i difetti del
gioco?“
“Se la metti su questo piano, ma viene a casa tua?“
“ Sì, lo devo ancora avvisare ma sono sicuro che non mi dirà
di no, poi non ci vuole molto, ho intenzione di fargli giocare solo un piccolo
pezzettino, anche perchè a fare tutto il gioco senza trucchi e senza
suggerimenti ci vuole qualche mesetto. Mi basta che finisca il primo livello;
se si diverte con il primo livello vuol dire che il gioco può funzionare, se si
annoia significa che io sono licenziato.”
“ Ottima prospettiva, ci vediamo per le nove e mezza?“
“ Fai anche otto e mezza, è un bambino non posso mandarlo a
casa a mezzanotte, sua madre mi ucciderebbe.“
“Ok, appena finito di cenare salgo da te.“
“Ci vediamo dopo allora! “
Metto giù il telefono e chiamo Matteo che come previsto, dopo
aver supplicato la madre, ottiene il permesso di venire da me a provare il
gioco.
Ore otto e trenta,
Matteo puntualissimo suona alla mia porta di casa, lo faccio sedere davanti al
computer e gli spiego brevemente di cosa si tratta. Mi accorgo facilmente che
non mi sta ascoltando, è troppo impaziente. Suonano nuovamente alla porta, è
Alessia.
Ale non fa tempo a superare la soglia di casa che Matteo: “Ma
voi due siete fidanzati? “
Ale: “Beh sì, qualcosa del genere”
Matteo: “Qualcosa del genere significa che fate l’amore
assieme ma che non vi volete sposare giusto? “
Ale, diventata rossa come un peperone “ Ma tu non sei un po’
troppo piccolo per sapere certe cose? “
Matteo: “No anzi, c’è Marta, una mia compagna di scuola, che
in cambio di un pezzo della mia merenda mi fa vedere la sua patatina”
Ale: “Ma la mamma queste cose le sa? “
Matteo: “No sei matta, non glielo dire che poi si arrabbia”
Sarà meglio che cambio discorso:
“ Allora Mate, vuoi parlare o giocare?”
“Giocare, giocare”
Abbasso le luci introduco il cd.
L’animazione iniziale del gioco lo lascia a dir poco perplesso
e stupito, nelle prime fasi della partita devo spiegargli come si usano i
comandi principali e quali sono gli scopi del gioco. Una volta date queste
piccole istruzioni, Matteo prende il pieno possesso della situazione ed
incomincia ad abissarsi nel ruolo di
Luigi, senza mai staccare la testa dal monitor o pronunciar parola. Non saprei
dire se questo è un bene o un male, ma una cosa è certa: lo coinvolge.
Noto con mio stupore che anche Alessia è piuttosto interessata
e che freme quasi dalla voglia di fare una partita anche lei, del resto il “The
Black Ship” l’ho pensato più per adulti che per bambini. E così mi ritrovo con
due tester perfetti e con una simpatica ed economica serata. In poco tempo
Alessia si intromette nelle decisioni del gioco e Matteo confabula con lei in
modo molto complice; si sono dimenticati di me! Mi verso un bicchiere di Mezcal
e mi siedo sul divano alle loro spalle cercando di non disturbarli, ma di
osservare attentamente le loro scelte. La serata scivola via molto veloce come
la bottiglia di Mezcal, ed in men che non si dica si sono fate le undici, io
sono mezzo brillo e Matteo deve andare a casa. Mi alzo ed accendendo le luci mi
accorgo che sono andati più avanti di quanto credessi, quei due hanno quasi
finito il secondo livello. Arrabbiati per avergli acceso le luci mi fanno
notare che sanno perfettamente che è giunta l’ora di smettere ma vogliono prima
finire il secondo livello. Dopo un po’ di insistenza mi trovo costretto a
staccargli l’alimentazione del p.c. Matteo arrabbiatissimo mi dice di tutto, ma
Alessia si rende conto che per lui è troppo tardi e mi aiuta a convincerlo che
è l’ora di andare a casa. Accompagno Matteo fino alla porta di casa e lo
ringrazio, lui non manca di farmi notare che la prossima volta che mi serve un
favore simile devo chiamarlo, altrimenti si offende. Mi congeda dicendomi che
domani i suoi compagni di classe schiatteranno d’invidia. Appena rientrato in
casa trovo Alessia appiccicata al computer che sta continuando a giocare, e
stressa per sapere quanto manca per finire il secondo livello.
“Ale non ti ci impallare troppo con quel gioco che domani devo
riportarlo in ufficio.”
“Stai scherzando vero?! Questo gioco non va da nessuna parte
finché non l’ho finito”
“No Ale non posso, devo rimetterlo a posto prima che si
accorgano che l’ho preso, se sapessero mai che faccio uscire dall’ufficio i
giochi prima che siano registrati succederebbe un putiferio.”
“Ok, però prometti che appena puoi me lo riporti”
“Promesso, ora andiamo a nanna che siamo entrambi distrutti?”
OTTAVO LIVELLO
Mattina dopo, ore nove, Persiana Jones, denti faccia, vestiti
e mi precipito a prendere il gioco dal pc. Non c’è, Ale se l’ è preso ieri
sera! Fanculo ora che gli racconto in ufficio?!
La giornata di lavoro scorre tutto sommato velocemente, sono
riuscito a nascondere la mancanza del cd e la collega non stressa neanche più
di tanto per le sigarette. Alle cinque in punto mi proietto fuori dall’ ufficio
salgo in macchina e chiamo Alessia. Non c’è, sua madre mi ha detto che è dovuta
partire per un urgente impegno di lavoro e che si scusa ma non ha potuto
neanche chiamarmi. Starà via alcuni giorni. CAZZO!! Domani c’è il concerto di
Guccini, devo restituire il cd e cosa più importante non capisco come non abbia
avuto neanche il tempo di telefonarmi.
Ok, non facciamone un problema, lei è una modella, possono
capitare queste cose, anzi mi ci devo abituare. Ora però che faccio? Boh, farò
un salto al bar a prendere un aperitivo, magari incontro Scianca e gli altri.
Come volevasi dimostrare, Scianca, Dado, Brobro, bronza e
tutti gli altri sono lì seduti sulle sedie del bar, come il solito a fare un
emerito cazzo. Come scendo incominciano con le solite battute:
“Dì un po’ Vla mi han detto che ti schiacci quella straficona
della tua vicina, ma a letto vale quanto in passerella?”
“Sicuramente vale più di te e Dado al volante”
Dado: “Oh, ma che cazzo volete da me, è lui che se l’ è messa
di tetto e sei tu che ti trombi la tipa, mollatemi”
Il Boss: “No Vla, davvero, ci esci sul serio con quella ?”
“Sì, ci esco e allora? E’ un problema se io mi schiaccio una
che voi non avete mai osato neanche sognare nei vostri sogni erotici più
perversi ?”
Scianca: “Sì, ora sta a vedere che lei ce l’ ha diversa dalle
altre”
Il Boss: “Vla vieni un attimo con me che ti devo parlare”
Si fa versare un Negroni per lui ed un Mezcal per me e mi
porta nella saletta al piano di sopra, dove non c’è quasi mai nessuno. In
questo caso ci siamo solo noi ed una coppietta nel tavolino in fondo.
“Senti un po’ Vla, ma come ti trovi con Alessia, si chiama
così giusto?”
“Bene, molto bene perchè ?”
“No così, ma sei già bello cotto ?”
“Scusa Boss, ma ti se rincoglionito guardando Marta Flavi
oppure c’è qualcosa di strano, perché non ti è mai fregato meno di niente delle
mie storie”
“No così per sapere, siamo amici no?! “
“Boss sputala tutta, dove vuoi arrivare ?”
“No, ecco vedi, volevo chiederti se per te ci sarebbero dei
problemi se io e Miriam... ecco... hai capito no?”
Mi scappa un ghigno, un ghigno molto nervoso.
“Ti chiedo una sola cosa Boss, ma devi rispondermi sincero,
come fossimo fratelli: tra te e Mi’, la mia Mi’, c’era qualcosa prima ancora
che io e lei ci mollassimo?”
“Cha cazzo di domande fai Vladi, certo che no, mi conosci, sai
bene che non farei mai un’infamata simile ad un amico.”
“Sicuro??”
“Al mille per mille”
“Ok, se è così: no, non ho niente in contrario.”
Mi abbraccia molto forte e mi dice: “Lo sapevo che avresti
capito, sei un amico Vla, al posto tuo io me la sarei presa di brutto. Ok, ora
che abbiamo chiarito mi sono tolto un peso”
“Figurati Boss, hai fatto bene a dirmelo così evitiamo
schiaffi inutili.”
“Grande Vladi, vedo che ci capiamo.”
Il Boss, armadio a due ante, pieno di tatuaggi ed orecchini
piercing, mi volta le spalle ed incomincia a scendere le scale visibilmente
rilassato.
“Ehi boss”
“Dimmi Vla”
“Il clito, le piace da matti se ci giochi per ore”
“Ma vaffanculo Vladi!!!!!!”
Scendo al piano di sotto anche io e tento di mantenere un’
aria piuttosto serena, anche se la notizia che il Boss si è messo con Miriam in
realtà mi ha abbastanza scosso. Mentre, seduto al tavolino con un paio di buoni
amici, mi sorseggio il mio secondo Mezcal, do un’ occhiata in giro. Ma non mi
limito solo a guardare quello che mi sta intorno, lo osservo, mi estraneo dal
mondo per scrutarlo dall’ esterno, e ne traggo alcune osservazioni, qualche
conclusione e molta tristezza. Il mondo negli ultimi dieci anni, da quando io
ero un pivello, è cambiato parecchio, forse anche troppo; o forse sono io ad
essere cambiato ed a trovarmi a guardarlo con un ottica diversa. Ma no, è
proprio lui che si è modificato, sembra quasi che le persone che lo abitano
abbiano tutte preso la stessa direzione, sembra che tutti si stiano omogeneizzando
verso una solida apparenza senza carattere, senza anima ma solo corpo; sembra
quasi che nessuno abbia più nulla da dire, che nessuno faccia più esperienze nuove, senbra che nessuno coltivi
più passioni. Tutti si sono standarizzati verso un unico target; lo si
riscontra nelle cose piccole, di tutti i giorni. Una volta c’erano gli
appassionati di una cosa o dell’altra e venivano prodotti articoli specifici in
quella direzione. Oggi tutti vanno nella stessa direzione, oggi non abbiamo più
l’ appassionato di auto o di moto che compra il modello sportivo e la Domenica va a sfogarsi, oggi abbiamo tutti
padri di famiglia o finti manager che comprano Fiat Multiple o schifezze
simili. Una volta c’erano cantanti con le palle che scrivevano testi con le
palle, avevamo roba tipo: “Cuore” di Lorenzo Cherubini o “Tamuria” del buon
vecchio Piero, oggi abbiamo “E’ per te” una bella ninna nanna che farebbe
addormentare chiunque, persino un bambino, o “Toroloco” che più che oioioioi
non sa raccontare. La gente si sta adattando alle cose senza sale, ma io
insipido non ci sono mai riuscito a mangiare.
Mi alzo di scatto, saluto gli amici con un ciao e me ne vado,
lasciando lì le mie tristezze.
Rientro in casa cercando in un modo e nell’altro di sviare i
miei pensieri su cose più allegre, ma la cosa risulta maledettamente difficile.
Se penso ad Alessia provo un senso di paura misto rabbia, ansia ed anche un po’
di delusione, se provo a ricordarmi i bei periodi passati con Miriam mi viene
il nervoso a pensarla insieme a quel lampadario tatuato, in più non ho molti
bei ricordi recenti di lei, se non qualche nottata di sesso. Così scivolo nei
pensieri malsani, quelli che mi fanno capolino ultimamente, mi viene voglia di
andarmene, come ha avuto il coraggio di fare Luigi, mi viene da pensare che
forse ci sono rimasto fin troppo in questa città, sempre con la stessa gente,
lo stesso lavoro, gli stessi amici, gli stessi locali, la stessa solita
monotonia di una banale giornata. Penso che esistono posti dove si può vivere costantemente
sopra i 23 gradi, dove fai il bagno tutto l’anno e dove vivere, se ti sai
accontentare di poco, risulta terribilmente facile. Ma poi mi rendo conto che
Luigi è solo frutto di una mia immaginazione, che nella realtà sarebbe quasi
impossibile compiere un gesto di quel tipo. Così lascio che i miei pensieri mi
abbandonino lentamente, lasciandomi un vuoto senso di rammarico; verso che cosa
poi?
Mi convinco a telefonare ad Alessia, forse lei per qualche
motivo non può davvero chiamare, forse sta aspettando che lo faccia io, e come
me si è chiesta che cosa sto aspettando. Prendo il telefono e compongo il
numero del suo cellulare: “Omnitel il cliente desiderato non è al momento
raggiungibile. Vi preghiamo di richiamare più tardi”
FANCULO!
M’innervosisce la vocina calma e gentile di quella tipa che in
parole povere ti sta dicendo che il telefono quando serve non prende mai.
Metto su un po’ di musica, “Curru Curru Gagliò” dei 99 Posse e
mi cucino qualcosa di buono. Nel frigo non c’è molto, mi devo accontentare di
una frittata di patate e wurstell, che oltre a riempire parecchio lo stomaco mi
piace anche molto. Proprio mentre mi sono appena seduto a tavola ed ho appena
impugnato la forchetta squilla il telefono. Di solito in una circostanza del
genere non mi sarei neanche alzato per rispondere, ma il dubbio che possa
essere Ale mi fa alzare quasi di scatto, limitandomi ad imprecarmi addosso per
non avere ancora comprato un cordless.
“Pronto?!” Nel momento stesso in cui rispondo mi accorgo che
il tono della mia voce lascia trapelare e di molto la mia irritazione.
“Va Beh, se ti da così fastidio non ti chiamo più”
E’ lei: vorrei
risponderle che sono felicissimo di sentirla, che mi sta mancando troppo e che
ero in pensiero per lei, ma raccolgo tutta la freddezza che possiedo e le
rispondo da scocciato:
“Oh, buongiorno signorina Alessia, chi non muore si risente”
“E dai Vladi, non mi dirai mica che sei arrabbiato?”
“No, non sono arrabbiato, ma avresti potuto avvisarmi,
perlomeno potevi mandarmi un messaggio sul cellulare.”
“No, il cellulare all’estero non funziona, e poi ho lasciato
detto ai miei di avvisarti, non dirmi che non l’hanno fatto”
“Sì, tua mamma me l’ha detto, ma avrei preferito sentirlo da
te, e poi che cazzo vuol dire che all’estero il telefono non prende, si può
sapere dove sei???”
“Ascolta, non posso parlare molto: sono a Parigi, a cena con
un importante stilista che mi vuole per una sua sfilata, però non posso fargli
capire che ho il ragazzo altrimenti salta tutto, sai come sono fatti questi
stilisti no??!”
“No, non lo so come sono fatti, e poi che significa salta
tutto, forse intendevi dire “crede di non potermi portare a letto””, lui non
può scoparti, tu sei impegnata e con me per giunta!”
“Ma dai Vladi non vorrai mica metterti a fare il geloso, è
lavoro! Ascolta non ho più tempo, vienimi a prendere domani all’aeroporto alle
sette che andiamo diretti al concerto.”
“E tu pretendi che io sapendo che passi la notte con quello,
domani venga a prenderti come niente
fosse? Scordatelo”
“Vladi non fare l’idiota che non ho più soldi e mi sta cadendo
la linea, ne parliamo domani che” TU TU TU
CAZZO! E’ caduta la linea.
PANICO, come può lei farmi un discorso simile, lei che è
così... così... puttana porco giuda, esco con una puttana d’alto borgo! Ecco
cos’è, con quella faccettina dolce, tenera, con quegli occhioni, è una gran
troya! Se va bene in diciannove anni ha ingoiato più cazzi di stilisti che
ravioli! Zoccola!
Il panico, la rabbia e l’agitazione prendono il sopravvento,
cerco di sedermi e rilassarmi, ma non ci riesco, cerco di calmarmi mangiando
qualcosa, ma non c’è niente in questo momento che possa passarmi attraverso lo
stomaco se non una buona bottiglia di Mezcal. Esco di casa ubriaco fradicio ed
ancora più arrabbiato di prima, salgo in macchina e me ne vado... dove poi? con
chi?
Rigorosamente da solo!
La macchina mi porta al Passo del Turchino; riesco a malapena
a distinguere quale sia la mia corsia, vedo le luci dei lampioni disperdersi
nella nebbia che non c’è, la strada per quanto perfettamente asciutta mi sembra
una lastra di ghiaccio. Ma non conta, tutto questo adesso non conta, quello che
conta è arrivare al più presto al Bar di Umbro e bermi qualche Mezcal
lamentandomi insieme a qualche vecchio su come a volte la vita può esser dura.
Intravedo in lontananza l’osteria di Umbro e capisco fin da
subito che in queste condizioni non sarà facile posteggiare in modo decente,
preferisco lasciare l’auto lì fuori, in mezzo alla strada, intanto da queste
parti passa una macchina ogni morte di Papa.
Appena entrato Umbro, che ormai sa che lo vado a trovare solo
quando devo ridurmi da buttar via, mi dice:
“Ehilà Vladimiro, come mai da queste parti: delusioni d’amore,
debiti da pagare o cos’altro?”
“Un po’ di tutto ed un po’ di niente Umbro, ma sappi che la tua
scorta di Mezcal ha breve vita”
“Oh, non ti preoccupare che ne ho la cantina piena, (per lui
significa un paio di bottiglie al massimo) sei l’unico che mi beve quella
schifezza al gusto di cherosene. Piuttosto direi che hai già dato fondo alla
scorta di qualche altro Bar.”
“No, a quella di casa mia. Mettimi da parte un paio di
bottiglie che me le porto via a fine serata.”
“Sempre che riesci ad uscire di qua sulle tue gambe, perché ti
vedo già bello pienotto”
“Non ti preoccupare che a casa io e la mia macchina ci
torniamo... ed interi”
“Come vuoi” e me ne versa uno, mentre i vecchi seduti ai
tavolini ci ascoltano e mi guardano con l’aria di chi la vita l’ha già vissuta
e quasi rimpiange i miei problemi di giovane. Per forza, loro darebbero
qualunque cosa per poter avere ancora una ragazza da rimpiangere o una notte di
sesso da ricordare, ormai non gli tirerà più da anni e credo che il vino abbia
offuscato il desiderio ed il lontano ricordo del loro ultimo amplesso. In poco
tempo si dimenticano della mia presenza e ritornano a parlare delle semine o a
bestemmiarsi dietro perché con un sette bello in tavola non si può non fare
scopa.
E come dice il buon vecchio Guccio, “Non posso e non so dir
per niente, se peggiore sia, a conti fatti la loro solitudine o la mia”.
Mentre loro continuano a chiacchierare ed a discutere io
continuo a bere e sfogarmi con Umbro, che facendo finta di ascoltarmi e
capirmi, pensa già all’enorme conto che
mi presenterà a fine serata. Per un paio di volte mi trascino in bagno
per infilarmi due dita in gola e creare un po’ di spazio a dell’altro alcool;
purtroppo non Mezcal perché come previsto è finito. Barcollando tra un tavolino
e l’altro, urtando e rovesciando qualche bicchiere abbandonato sui tavoli vuoti
riesco a raggiungere il mio sgabello, dove Umbro mi convince a bere del vino
che a sua detta farebbe gola anche a Bacco.
La fine della serata arriva e con lei anche il momento di
andarsene ed affrontare il viaggio con la paura di poter ritrovare la lucidità.
Due tizi neanche, troppo vecchi, mi accompagnano, o meglio mi sorreggono fino
alla macchina. Faccio un enorme fatica a sedermi e trovare il nottolino per la
chiave. I due quasi mi implorano di lasciare l’auto lì e di farmi accompagnare
a casa da loro; ma non possono capire che la mia Escort va dove vado io! In un
modo o nell’altro riesco a partire e impiegando circa un quarto d’ora per far
manovra riesco anche a dirigermi verso casa. La testa mi sembra gonfia, la
strada un immenso nastro gommoso che continua ad articolarsi di fronte a me, le
gallerie si fanno strane e quasi enormi, gli alberi a lato sono diventati
moltissimi e più vicini alla strada, non
riesco capire quante corsie ci siano e
quante righe di mezzeria, ed ancora meno riesco a rendermi conto di quanto sia
larga la strada o se ci sia del ghiaccio o meno. E’ buio, è tutto così buio!
NONO LIVELLO
Ore 4.52
“Signor Visconti, Signor Visconti si svegli !”
E’ la voce di un’infermiera, apro gli occhi e mi ritrovo a
fissare una forte fonte di luce, quella di una lampada da lettino medico,
un’infermiera anzianotta sta tentando di farmi riprendere mentre un’altra più
giovane sta regolando il flusso della flebo attaccata al mio braccio. “Ma cosa
mi è successo? Dove sono?”
La più giovane sorride con l’aria di una che di queste domande
ne ha già sentite a migliaia, mentre la più anziana con una voce pacata e
l’aria quasi rimproverante da predica materna mi spiega:
“Ha avuto un incidente, non si ricorda? E’ volato giù da un
burrone con la sua auto, è un miracolo che non si sia fatto niente”
“E la macchina? Cosa si è fatta la macchina?”
“Non lo sappiamo, mi dispiace.”
Allora interviene la più giovane, che forse delle due è anche
la più brutta:
“Ma lascia perdere la macchina, con il volo che hai fatto
dovresti essere morto, invece non hai assolutamente nulla, e poi con tutto
l’alcool che ti abbiamo trovato in corpo è già grazie che non sei finito in
coma etilico”
Nonostante mi senta abbastanza lucido, non riesco a capire con
precisione cosa mi sta succedendo, non riesco ancore a comprendere le sfumature
della situazione, però riesco a capire che devo aver combinato un bel casino.
Le due infermiere dopo essersi raccomandate di non pensare a nulla se non a
riposarmi, escono dalla sala medica lasciandomi solo a fissare un muro bianco sporco
e degli attrezzi medici che aumentano la depressione mista paura che si sta
insidiando in me. Dopo poco tempo, o perlomeno mi è parso poco, entrano due
carabinieri accompagnati da un dottore.
“Bene Signor Visconti, abbiamo fatto baldoria stanotte vero?
Oh, ma non si preoccupi che gliela facciamo passare noi la voglia di
ubriacarsi.”
Di fronte ad una presentazione del genere non si può far altro
che dare pane al pane.
“Senta, lei è qua per fare il suo lavoro, non per prendermi in
giro, quindi per cortesia faccia quello che deve fare senza peggiorare la
situazione con della stupida ironia.”
“Giovanotto, allora lei non si rende conto, vuole addirittura
fare il furbo, ma lo sa che con il disastro che ha combinato rischia il
penale?! Io se voglio la rovino! Le faccio passare la voglia di fare
l’imbecille.”
“Imbeccille lo va a dire a sua moglie ed a suo figlio, ma non
si permetta di venire in una sala di un pronto soccorso medico ad insultarmi,
lei faccia il suo lavoro, mi faccia un verbale da infarto o mi stracci la
patente se lo ritiene opportuno, ma non mi rompa i coglioni”
A questo punto il carabiniere più giovane urlandomi che non mi
devo permettere mi prende per il colletto della camicia ed ad un dito dalla mia
faccia incomincia ad urlarmi cose incomprensibili in napoletano stretto.
Il medico che era presente interviene ordinandomi di stare
calmo ed allontanando i due sbirri pregandoli di tornare l’indomani quando la
situazione sarà più calma. I due si scusano con il medico e se ne vanno
dicendomi che è la feccia come me a
rovinare il nostro Bel Paese. Appena si voltano gli mostro il dito medio della
mano destra. Il medico (molto giovane tra l’altro) mi guarda sorridendo e dice
che lui gli odia ‘sti carabinieri, che sono convinti di poter governare il mondo.
Dalle sue parole mi sembra di capire che non è il solito babbaccio secchione e
gli rispondo:
“Grande! E’ così che dovrebbe essere, via gli sbirri dall’
Italia.” Questo mi guarda con l’aria di
chi condivide ma non può sbilanciarsi e mi dice:
“Non sarebbe male, comunque torniamo a te: ora ti faccio
portare su in corsia, ti faccio dare un bel letto e te ne stai buono fino a
domani sera, così passate le ventiquattro ore di osservazione te ne vai a
casa Ok?!”
Avrei voluto rispondere che non era ok proprio per niente, che io dovevo uscire ed andare a
controllare le condizioni della mia macchina, che domani sera c’era il concerto
di Guccini e che il mio principale non mi avrebbe permesso di stare in ospedale
così a lungo. Ma in realtà mi sono limitato a rispondere: “Ok”.
Il tipo esce stringendomi un piede come saluto, quasi sapesse
che da lì in poi non avrei fatto altro che pagare le conseguenze della mia
bevuta.
Poco dopo entra un barelliere; un tipo tanto analfabeta da non
riuscire a mettere assieme un’intera frase, ma con l’aria molto simpatica.
Batte due colpi sul trasportino e mi fa segno di sdraiarmici sopra. Senza
fiatare, faccio ciò che mi dice e mi lascio portare a zonzo per l’ospedale.
Prima lungo i corridoi del pronto soccorso fra gli occhi curiosi della gente in
attesa del loro turno, che più che guardarmi mi analizza, poi in un ascensore
con un fortissimo odore di disinfettante ed ancora nei corridoi deserti dei
piani superiori; fino ad arrivare nella corsia dove si trova il mio letto. Il
barelliere accosta la lettiga sulla quale sono sdraiato e bussa alla porta di
quella che sembra essere la piccola cucina del reparto. Aprono due giovani
infermierine del turno di notte, due tipe dall’aria molto simpatica e gioviale,
entrambe con in mano una tazza di caffè bollente. Il barelliere confabula con
loro e mi indica con un cenno della testa e la più anziana delle due chiede
conferma che io sia “quello dell’incidente”.
Il barelliere si allontana salutandomi strizzando l’occhio e
l’infermiera più giovane si rivolge a me in modo molto amichevole:
“Allora signor...”
ed estrae i fogli dalla cartella clinica:
“Vladimiro Visconti,
adesso ce ne andiamo di la sul tuo bel lettuccio e ci facciamo tanta nanna che
ne ha bisogno”
Oh Cristo, questa mi ha preso per scemo:
“Vladi, mi chiamano tutti Vladi, o perlomeno tutti i miei
coetanei, e credo che tu faccia parte di quelli. E poi dai, non vorrai mica
infilarmi di la in mezzo ai vecchi che russano e sperare che io dorma, voglio
dire non mi sono fatto assolutamente niente, se devo restare qua per forza
almeno fatemi stare con voi, in compagnia. Altrimenti muoio di noia, e quando
mi dimettete sono più rincoglionito di quei vecchietti russanti.”
L’infermiera si volta a cercare una conferma nello sguardo
della più anziana delle due, che prontamente annuisce con un piccolo movimento
del capo.
“Allora dai, salta giù da quella lettiga e versati un caffè”
“Ok, come mi chiamo lo sapete e credo che sappiate anche un
po’ del resto, perlomeno delle ultime ore della mia vita, ore tocca a voi
presentarvi”
Ascolto i loro nomi mentre mi verso il caffè.
Ore sei e trentacinque:
due ausiliarie spalancano tutte le finestre facendo entrare la
luce ancora fioca del giorno e sostituendo la vecchia aria, viziata ma calda,
con quella nuova, ossigenata ma gelida. Cerco con lo sguardo di trovare Milena
ed Anna, le due tipe del caffè, in mezzo al mucchio d’infermiere che sta
invadendo la sala, ognuna con lenzuoli, medicine, flebo, cuscini, cartelle
mediche e via dicendo. L’odore del disinfettante usato dalle ausiliarie per
lavare i pavimenti mi provoca quasi bruciore alle narici, che solo ora scopro
essere piene di sangue coagulato e molto indolenzite, devo aver preso una
facciata sul volante. Ancora assonnato mi vedo porgere un contenitore per le
urine e senza neanche avere il tempo di chiedere spiegazioni mi viene fatto
notare che: o urino lì dentro nei prossimi cinque minuti o mi mettono il
catetare. Dio come odio gli ospedali. Sono solo capace di rispondere dicendo:
“Buongiorno!! ”
A metà mattinata arrivano, ma lo sapevo che sarebbero tornati,
gli aspettavo: vedo i due carabinieri di ieri sera entrare di gran passo e
venirmi dritti incontro.
“Signor Visconti buongiorno, ha dormito bene stanotte, oppure
ha fatto qualche incubo premonitore? Allora, visto che lei ieri sera si è
rifiutato di voler verbalizzare una dinamica dell’incidente abbiamo dovuto
attenerci ai rilevamenti effettuati dai nostri colleghi della Stradale. Quindi
qui abbiamo un bel verbale per: guida in stato di ubriachezza, eccesso d velocità,
guida pericolosa, guida senza cinture di sicurezza, oltraggio al pubblico
ufficiale; poi vediamo un po’ cosa c’è in questa bella cartellina... ohhh,
ma cosa vedo: una verbalizzazione della
sospensione della sua patente per mesi sei, il sequestro della sua autovettura,
o di quello che ne è rimasto, con il parcheggio obbligato per mesi nove
all’interno delle nostre strutture, parcheggio che naturalmente dovrà essere
pagato. Non dimentichiamoci inoltre del verbale per tutte le modifiche non in
regola con il Codice della Strada che le abbiamo riscontrato sulla vettura.
Come lei stesso può ben vedere la bevuta di ieri sera le è costata cara. Buona
giornata signor Visconti, ah quasi dimenticavo, la salutano quegli imbecilli di
mia moglie e mio figlio.”
Mi butta tutta la documentazione più una scatola di medie
dimensioni sul letto e se ne va, con quell’aria soddisfatta di chi ha appena
fatto giustizia.
Trattengo a fatica le lacrime, butto da un lato i verbali e le
citazioni in tribunale e mi concentro sulla scatola. Aprendola scopro che
contiene i miei effetti personali ritrovati sulla macchina: telefonino ancora
acceso, una foto di Miriam, tre accendini Bic, una decina di cd e le foto della
macchina dopo l’incidente. Fisso lo sguardo sulle foto, non riesco a crederci,
non posso e non voglio credere che la mia macchina si ridotta così. Da buttare
via, si fa fatica a riconoscerla. Adesso non trattengo più le lacrime.
“Sono andati giù pesante quei bastardi” Milena mi abbraccia e
mi fa appoggiare la testa sulla sua spalla. Io non riesco neanche a
risponderle, sono solo capace di piangere, piangere e singhiozzare come un
bambino piccolo. Milena prova ancora in qualche modo a consolarmi, ma alla fine
si rende conto che non c’è molto da dire e aspetta, come una brava mamma, che
io abbia finito di sfogarmi. Al che alzo lo sguardo, con gli occhi ancora pieni
di lacrime e mi scuso:
“Sei fin troppo brava Milena e pensare che ieri sera ti avevo
giudicata molto diversa. Ma perché poi ti preoccupi per me, sono solo uno dei tanti
pazienti che stasera se ne andrà.”
“Tu sei solo uno dei tanti pazienti, ma come tutti i pazienti
sei un essere umano, una persona. E se
una persona piange in quel modo vuole dire che ha bisogno di aiuto, perlomeno
di consolazione. Visto che mi hai giudicata male, lo vuoi un caffè prima di staccare il turno?”
“Sei un angelo”
Mi porta il caffè già cambiata e vestita da civile, così è
anche carina, si siede a chiaccherare con me. La sua presenza mi è di grande
aiuto, non mi fa pensare a ciò che è successo ieri e tantomeno a quello che può
essere successo nelle stesse ore ad Alessia. Si fa presto l’ora di pranzo e
Milena se ne va lasciandomi il suo numero di telefono e promettendomi di farsi
sentire. Il pasto è naturalmente uno schifo; come il pomeriggio la cui
monotonia è spezzata solo dalla visita dei medici che mi consegnano il foglio
di dimissioni.
Ore 18.00 posso andarmene!
Metto in un sacchetto nylon quella poche cose che ho deciso di
tenere tra quelle che mi ha consegnato lo sbirro, mi faccio chiamare un taxi e
mi faccio accompagnare nel parco dell’autodemolitore dove hanno portato la mia
auto. Chiedo al tassista di aspettarmi pochi minuti e mi dirigo verso il mio
Escort per dargli l’ultimo saluto. Quello che ne rimane è quasi irriconoscibile
e trattenendo a fatica le lacrime passo lentamente la punta delle dita sul
cofano e sul tetto.
“Ciao piccola, cosa ti ho fatto! Non te lo saresti mai
aspettato da me vero? Eppure è successo, e quel che è peggio è che è successo
andando piano. Non ti ho dato nemmeno una morte gloriosa! Mi dispiace piccola,
non doveva finire così. Addio”
Il tassista mi attende vistosamente spazientito a bordo
strada. Risalgo in auto e mi faccio portare a casa.
Prima di salire mi cade l’occhio sulla porta del box, l’idea
che sia e che resti vuoto mi addossa un senso di depressione che difficilmente
riuscirò a scacciare nei prossimi giorni. Salgo in casa, mi butto sul divano ed
estendendo al massimo il braccio riesco a raggiungere il tasto della segreteria
telefonica ed ascoltare i messaggi che contiene. Fra tutti quelli dei miei
amici, alcuni realmente preoccupati per la mia salute altri che si preoccupano
solamente di prendermi un po’ per il culo ci sono anche i messaggi di Alessia e
quelli del mio principale. La prima si dice furibonda perché non sono andato a
prenderla in aereoporto, ed il secondo invece, più preoccupato del lancio del
gioco che per me, si raccomanda di farmi sentire al più presto se ci tengo al
mio impiego.
A quest’ora dovrei essere già di fronte ai cancelli del
Palazzetto dello Sport con addosso una maglietta di Guccini e sulle spalle la
bandiera del Chee. Invece sono qui sdraiato con un’aria da moribondo senza la
minima voglia di andare al concerto e senza neanche sapere che fine abbia fatto
la persona che doveva venirci con me; che tra l’altro non so nemmeno se sia
ancora la mia ragazza. Mi appisolo sul divano per più di mezz’ora e vengo
svegliato del brusco e continuo suono del campanello di casa. Apro la porta e
mi trovo di fronte Alessia che guardandomi con aria ben poco amichevole mi
dice:
“Buongiorno, chi non muore si rivede! Ti ho aspettato due ore
all’aereoporto! Lì in piedi come una scema, al freddo! E poi oggi non dovevamo
andare al concerto assieme? Ed invece ti trovo bello tranquillo, pacifico e
beato che te la dormi sul divano! Cazzo ma chi ti credi di essere per trattarmi
così! “
“Almeno hai raggiunto l’orgasmo?” chiedo io.
“Ma che cazzo stai dicendo Vla? Ti sei rincoglionto o cosa?”
“Ti ho chiesto se ieri notte lavorando con quello
stilista hai almeno raggiunto l’orgasmo? Ma forse no visto che tu ti scopi le
firme importanti solo per lavoro”
“Oh Cristo, Vladi! Non mi verrai a dire che te la sei presa
per quella battuttina?! Guarda che io non ci ho fatto niente col tipo se è
questo che vuoi sapere. La storia di portarmi a letto era solo per farti
ingelosire un po’ , non te la sarai bevuta spero?”
“Farmi ingelosire un po’?! No, scusa hai ragione , la mia
ragazza mi telefona da non sò nemmeno dove e mi dice che è a cena con uno
stilista e che mi telefona di nascosto perché se lui sapesse che è impegnata
non se la scoperebbe più e non le darebbe il contratto. E non dovrei crederci?
Ci ho creduto talmente tanto che ho distrutto la macchina, mi sono fatto due
giorni di ospedale, mi hanno ritirato la patente e fatto quasi quindici milioni
di verbali! Ecco quanto ci ho creduto!
Ed ora vattene, vai via di qua prima che ti metta le mani
adosso!”
“Cosa stai dicendo Vladi, scherzi vero?”
“Ti ho detto di levarti di qua, esci immediatamente dalla mia
casa, vattene fuori dai coglioni, sparisci, evapora, muori, fai quello che
cazzo vuoi, ma levati da qui e se ce la fai levati anche dalla mia vita.”
Lei si volta senza neanche rispondermi e con l’aria di chi è
indeciso se piangere o picchiare se ne va sbattendo la porta. Nel momento
stesso in cui pronunciavo quelle parole mi ero già pentito di averle dette,
dopotutto non è colpa sua, lei forse stava davvero giocando senza rendersi
conto di quanto male mi avrebbe potuto fare. Ma no, che cosa sto pensando, lei
si è davvero fatta dare da quel coglione e se va bene gli è anche andata male e
non ha ottenuto quello che voleva, poi è tornata con la scusa del farmi ingelosire e sperava di poter rimettere
tutte le cose al suo posto. Non ha però calcolato che le cose al loro posto,
ora, non ci torneranno mai più.
Istintivamente mi dirigo verso il mobile dei liquori per
versarmi un Mezcal, ma prima ancora di rendermi conto che è finito vengo invaso
da un insopportabile senso di nausea che mi persuade dall’idea. Mi siedo a
tavola ed appoggio la testa sul tavolo. Vorrei piangere, vorrei urlare, vorrei
gridare al mondo intero di lasciarmi stare, vorrei far capire a tutti che non
me ne frega un emerito cazzo del loro mondo, del loro stile di vita e delle
loro fottute regole di comportamento. E invece non riesco nemmeno ad
ubriacarmi. A cosa servirà poi tutto questo? Perché vivere una vita intera
correndo, pensando, e cercando di costruire un qualcosa che
indiscutibilmente crollerà quando
moriamo? Perché correre, verso cosa poi? Basta non ne posso più! Sono stufo di
dover rispettare le regole di un gioco inventato e condotto da altri, sono
stufo di dover sottostare a delle normative e dover adattare la mia vita o
addirittura modificarla ad un qualcosa o verso un qualcosa che non voglio e non
condivido. Basta sono stanco e stufo di dover fingere di vivere. Io voglio
vivere... a modo mio!
Mi alzo di scatto, prendo il telefono, chiamo il mio principale.
“Signor Fantoni buongiorno sono Vladimiro.”
“Oh Buonasera, chi non muore si risente, ci siamo anche
permessi di sparire senza dir nulla quando mancano solo due giorni alla
presentazione ufficiale.”
“Sì, ero in ospedale, ho avuto un incidente stradale.”
“Oh scusa non lo sapevo, ma
non ti sei fatto male vero, ci sei alla festa del lancio. Lo sai che ci
devi essere”
“Sì, sì, non si preoccupi ci sarò. Le chiedo solo due favori:
potrebbe lasciarmi ancora domani libero per rimettermi un po’ in sesto e poi se
cortesemente potrebbe lasciarmi il biglietto d’aereo prenotato in biglietteria
qui al “Cristoforo Colombo” ?”
“Sai bene Vladi che questi sono favori un po’ grandi da
chiedermi e che di solito non li facciamo. Ma visto il tuo particolare problema
credo di poterti accontentare. Ascolta prenditi tutto il tempo che vuoi, ci
vediamo direttamente a Milano alla presentazione. Ok?”
“Perfetto grazie, mi ha letto nel pensiero”
“Oh, figurati. Ci vediamo dopodomani allora”
“Ok, la saluto”
Riaggancio e sorridente mi preparo la cena.
DECIMO LIVELLO
Ore 08.30 lo stereo insiste per svegliarmi, realizzo in poco
tempo di non dover andare al lavoro; mi alzo ugualmente sapendo che mi attende
una dura e lunga giornata. Mi vesto molto lentamente, prendendomi tutto il
tempo necessario per fare le cose con calma, finalmente senza fretta, senza
orari e senza nessuno a cui dover rendere conto delle proprie azioni.
Esco di casa e vado al Bar dove di solito stanno Scianca e gli
altri. Il tragitto da casa mia al Bar a piedi non è proprio una passeggiata, ma
io non ho nessuna fretta. Arrivato al Bar vedo che come sospettavo non c’è
nessuno di conosciuto: per loro è ancora troppo presto. Mi siedo in un tavolino
appartato ed ordino una cioccolata calda corretta “Pampero”, un croissant alla
marmellata ed un succo di frutta gusto mela. Consumo il mio primo pasto della
giornata in circa trenta minuti, mi fumo un paio di sigarette ed esco salutando
nel modo più cortese che conosca. Oggi mi sento in pace con il mondo! La
camminata che mi separa dalla Banca non è lunghissima, ma lo è quanto basta per
farmi notare che il mondo visto e scrutato la mattina presto non è poi così
malvagio. A quest’ora chi deve essere al lavoro c’è già e chi è in giro c’è
perché ci vuole essere. Sono tutti sereni, riposati e tranquilli o forse
semplicemente sono io che li vedo così.
Arrivato in Banca e smaltita la folta coda, arriva finalmente
il mio turno. La cassiera, poco più che trentenne e decisamente bruttina si
presenta in modo molto gradevole e con un tono piuttosto cordiale:
“Buongiorno Signore sono Patrizia, in che cosa posso esserle
utile?”
“Buongiorno Patrizia, io avrei bisogno di estinguere il conto
numero 10964 intestato a Vladimiro Visconti.”
“Benissimo, mi servono un documento di identità valido, la sua
carta Bancomat ed il suo libretto di assegni.”
Sbrigate le formalità burocratiche, la tipa mi consegna una
busta contenente l’intero ammontare del mio ex conto. Esco dalla Banca
soddisfatto e mi reco dal primo Fioraio che trovo ordinandogli tre mazzi di
fiori e pregandolo di poterli consegnare a domicilio con i relativi tre
biglietti; sul primo dei quali scrivo:
“Alla Famiglia Visconti:
non preoccupatevi per me,
sto bene e prometto di
chiamarvi appena possibile.
Vostro figlio Vladi”
Sul secondo invece scrivo:
“Per Alessia:
Ciao Piccola, evidentemente
non
siamo fatti per capirci.
Quello che c’é stato tra noi
Quello che c’é stato tra noi
ha avuto un sapore meraviglioso
che mi sarà difficile scordare!
Non ti dimenticherò,non farlo
nemmeno tu!
per sempre Vladi”
e sul terzo:
“Ciao Miriam:
Spassatela finché puoi
perché un giorno capirai
come me, la sottile differenza
tra il gioco e la vita.
Senza Rancore... Vladi”
Mi accordo sull’ora della consegna, pago e passo alla prossima
commissione.
Mi dirigo verso un negozio di abbigliamento, il mio preferito.
Credo di dovermi rifare un minimo il look.
La commessa giovane e tanto carina quanto inesperta mi chiede
molto cortesemente di cosa ho bisogno.
“Vorrei una decina di magliette estive, possibilmente a tinta
unita e girocollo, nere e grigie se le ha, in più avrei bisogno di tre paia di
jeans colore nero taglia 46/48 e di tre pantaloni estivi di tessuto leggero
possibilmente con i tasconi laterali; grazie”
“Ma vede Signore siamo in inverno non abbiamo ancora il
campionario estivo.”
“Lascia perdere il Signore ed il lei, abbiamo più o meno la
stessa età, però senti non avete qualcosa tipo rimanenza di magazzino
dall’estate scorsa, perchè vedi, si da il caso che io abbia estremo bisogno di
quella roba ed abbia anche una certa urgenza.”
“Beh, per i jeans non c’é sicuramente problema, ma per il
resto posso chiedere alla principale se le risulta che ci sia qualcosa in
magazzino.”
La principale del negozio, una
signora sulla cinquantina con il trucco estremamente monile riesce dopo
una decina di telefonate a recuperarmi quello che mi serve fra i vari grossisti
che conosce. La roba arriverà però solo nel pomeriggio. Appena uscito dal
negozio mi dirigo in farmacia chiedendo informazioni su quali vacini bisogna
fare per evitare malattie strane in Paesi esteri, il medico della farmacia mi
spiega che ci vorrebbe un po’ più di precisione su quali sono i paesi esteri,
ma in realtà non lo so neanche io, così mi suggerisce di provare alla Asl
locale dove hanno un ufficio apposito. Evito di parlare della mia mattinata
all’ Asl perchè sulla funzionalità degli uffici pubblici ci si potrebbe scrivere
un trattato, ma in un modo o nell’altro sono riuscito ad ottenere tre iniezioni
più o meno antitutto, ma a questo non ci
credeva nemmeno il medico che me le ha praticate.
Chiamo un taxi dal quale mi faccio portare all’ Illusion per
mangiae qualcosa, niente di pesante: un risotto ai gamberi ed un mezzo litro di
buon vino.
All’Illusion me la prendo con molta calma e fra qualche
sigaretta ed un buon amaro chiamo Strappa, una vecchia conoscenza che mi deve
ancora un favore. Mi accordo con Strappa per passare in negozio da lui nel
pomeriggio e gli spiego che mi dovrebe fare una cortesia e che è molto
importante.
Alle sedici e trenta circa chiamo un altro taxi che mi riporta
in città, ed intanto Strappa ha aperto il negozio.
“Ciao Strappa è un po’ che non ci vediamo, come te la passi?”
“Ohh, ma chi vedo, un grafico di giochi proprio nel mio
negozio, il peggiore negozio di videogichi della città... quale onore!”
“Piantala di prendermi per il culo, come ti va?”
“Beh, finchè mi vedi qua dentro vuol dire che mi va male”
“E la tua seconda attività? Ce l’hai sempre?”
“Che seconda attività? Mai avuto altro oltre al negozio”
“Dai Strappa sai di cosa sto parlando”
“No Vladi, sono fuori dal giro, ho smesso da quasi un anno
ormai, non mi dire che era quello il favore che ti serviva?”
“Eh già, proprio quello, non è che per me potresti fare un
richiamino?”
“Vla, sai che sono cose bastarde e che mi mette male, e poi
sono cose che si pagano care”
“Quello non è un problema, quanto mi costa?”
“Diciamo una milionata se te ne stai della generalità che ci
sono sopra.”
“Ci sto, ce la fai per stasera?”
“Alle dieci non prima, prima di uscire lascia la foto nel
portaombrelli”
“Grazie sei un amico”
“Prego, se però poi il gioco è così bello come dicono non ti
dimenticare del tuo vecchio amico che li vende i giochi”
“Oh bene, vedo che hai parlato con Alessia”
“Vladi, lei non voleva farti del male!”
“Ma lo ha fatto, lasciamo perdere non ne voglio parlare, ci
vediamo alle dieci.”
Esco sorridente... ed il passaporto lo abbiamo!
Vado a ritirare la mia roba dal negozio di abbigliamento che
dal conto sembra essersi fatto pagare anche le telefonate ed il disturbo. Me ne
vado a casa aspettando la sera e l’ora dell’ appuntamento con Strappa.
Salto la cena, ancora sazio dell’ottimo pranzo fatto all’Illusion
ed ancora un po’ nauseato dalla sbornia presa da Umbro. Invio qualche mail agli
amici, tanto per salutarli e mi metto un po’ in ordine il monolocale. Le dieci
arrivano fortunatamente in fretta, come in fretta mi diriggo da Strappa per
ritirare i documenti che gli ho chiesto. Appena di fronte al suo negozio vedo
la saracinesca chiusa e le luci spente e vengo avvolto da un esagerato senso di
paura, di delusione e soprattutto di spaesatezza. Ora che faccio? Cazzo qui mi
salta tutto senza i documenti! No, un attimo, calmiamoci; provo a bussare sulla
saracinesca del negozio e sento la voce di Strappa che dice:
“Un attimo sto arrivando! Chi è? ”
“Finanza apra”
La saracinesca del negozio si apre di scatto ed il viso di
Strappa diventa da bianco pallido impaurito a rosso fuoco.
“Coglione mi hai fatto venire un infarto! “
“Dai era solo uno scherzetto”
“Scherzetto un cazzo, qui mi sequestrano anche il capellino
che ho in testa”
“Dai tagliamo corto che ho un po’ di fretta;i documenti come
sono venuti? “
“Scusa Vladi ma non li ho! Ho avuto un imprevisto qui in
negozio e non ho avuto il tempo di farteli avere”
“Cazzo Strappa, io ci contavo Cristo Santo! Ora come faccio,
sono nella merda più nera! “
“Scherzetto! Sono nel porta ombrelli, quando esci lascia lì i
soldi e prenditeli.”
“Fanculo, te e gli scherzetti”
E mi diriggo verso l’uscita.
“Ci vediamo presto? “
“No,non credo”
Estraggo dalla tasca interna del mio Eskimo una busta contente
i soldi e mentre esco la lascio cadere nel portaombrelli scambiandola con i
documenti.
Apro la porta del negozio ed esco senza voltarmi, senza
ulteriori saluti; in fondo mi dispiace un po’.
Strappa mi rincorre e mi domanda a cosa mi sarebero serviti i
documenti.
“Per vivere Strappa, mi servono per poter continuare a vivere!
“
“Vladi non fare cazzate! “
“Ne ho mai fatto? “
“Almeno una al giorno”
“Fanculo Strappa, grazie ancora e non ti preoccupare per me,
non l’hai mai fatto.”
M’incammino verso casa, mentre la ghiacciata brezza notturna
mi si insidia nelle narici risvegliando i dolori post incidente e lasciando
cadere qualche gocciolina di sangue. Arrivato a casa mi infilo di corsa sotto
la doccia e mi scelgo un giusto sottofondo musicale: i “Senso Unico” dovrebbero
andare bene.
Una lunga e ricostituente doccia mi rilassa quel tanto che
basta per farmi iniziare ad avere un po’ di sonno; mi preparo la valigia,
programmo lo stereo decidendo di lasciare i Senso Unico per il risveglio del
giorno dopo e m’infilo a letto.
Domani c’è l’inaugurazione di “The Black Ship” e quel coglione
di Fantoni mi aspetta a Milano insieme a tutti i giornalisti ed i colleghi e
gli amici e le mogli dei colleghi e le mogli degli amici e tutte le altre
persone che solo per domani metteranno da parte la nausea che gli provoco,
fingendosi contenti di vedermi e di conoscermi. Domani sarà una dura giornata!
Ore 7.30, i Senso Unico attaccano violentemente con
“Lasciatemi Stare”, mai colonna sonora fù più azzeccata. Soliti rituali del
mattino, breve colazione: caffè amaro e sigaretta.
Mentre aspetto il taxi per andare all’ aereoporto mi lavo la
tazzina del caffè e mi fumo un altro paio di sigarette sorprendendomi la mani
tremolanti per l’agitazione.
Scendo le scale, soffermandomi un attimo di fronte alla porta
di Alessia e scacciando il pensiero di lei così bella ed ancora addormentata
nel suo trasparente pigiama.
Appena uscito in strada scorgo il taxi arrivare, perfetta
sincronia.
Salgo in macchina, una Mecedes 190E quasi d’epoca ormai, e mi
faccio portare all’aerepoporto.
Fortunatamente il tassista è un incallito funatore e mi
permette di fumare le mie due sigarette; altrettanto fortunatamente è un tipo
parecchio riservato e non fa le solite domande del cazzo da tassista; oppure
semplicemente è uno che fa il suo lavoro e lo fa bene.
Appena arrivato all’aereoporto mi faccio quasi vincere dalla
voglia di lasciar perdere tutto e di tornarmene a casa nel mio caldo e sicuro
letto, ma alla fine mi ritrovo in coda di fronte alla biglietteria.
La commessa fa un po’ di storie sul fatto che per ritirare un
biglietto prenotato dovrei avere la cedola di prenotazione, ma dopo averle
spiegato il perché non ho quella maledetta cedola si convince a rilasciarmi
comunque il biglietto.
Il volo in aereo è dei più classici e banali e quasi ancora
più banali e sicuramente più tristi sono i miei compagni di volo.
Appena arrivato a Milano non trovo nessuno ad attendermi, come
previsto, e così mi diriggo subito al tabellone elettronico delle partenze;
dove la mia attenzione ricade subito sul volo “Alitalia AZ3986” delle 10.05 per
Houston, con scalo a New York.
Mi precipito immediatamente in biglietteria, forse ce la
faccio.
Dopo un po’ di lotta con la gente in coda allo sportello, che
si lamenta per non ho ben capito quale ritardo, ottengo il mio biglietto.
Nell’attesa che annuncino il mio nuovo
volo faccio un passo al bar, dove fra un pessimo capuccino e qualche migliaio
di sigarette incontro Maria, una signora trentaseienne che torna alla sua vita
a Houston dopo una prolungata visita natalizia ai parenti italiani.
Chiacchierando non ci accorgiamo di quanto il tempo passi e ben presto
annunciano il nostro volo.
Proprio mentre ci stiamo accingendo ad entrare nella corsia
d’imbarco mi squilla il telefonino: è il mio principale che mi chiede a che
punto sono e se va tutto bene. Scoppio in una risata quasi isterica e lasciando
cadere il telefonino nel cestino dell’immondizia dico ad alta voce:
“ Sì Signor Fantoni, va tutto a meraviglia!! “
Maria mi guarda come se avesse di fianco un pazzo scatenato e
fa quasi finta di non conoscermi, ma educata, non mi domanda spiegazioni, anzi
dopo pochi passi lascia andare un ghigno divertito.
So bene quello che sto facendo, anzi no, non lo so affatto
cosa sto facendo, ma quello che è certo è che lo sto facendo!
demo
inizia
nuova partita
pausa
riprendi
partita
salva
carica
salvataggio
esci
Ho gli occhi che non ce la fanno più, se fisso questo monitor,
ancora un po’ divento cieco!
Meglio prendersi una pausa ed ascoltarsi un po’ di buona
musica...
LASCIATEMI STARE (Senso Unico)
Lasciatemi starenon riesco a sentire
il Suono violento è molto meglio di voi
Lasciatemi stare non voglio parlare
non voglio ascoltare i vostri cazzo di guai
Noo, non riesco a
sentire
e voglio volare
Noo lasciatemi stare
sto per impazzire.
La meta raggiunta non vi ha regalato
quello che voi avete sempre sognato
ed ora... che fai? Mi chiedi il perchè
Ti lascio parlare tanto non puoi capire
cerca lontano ma vicino al cuore
alle profondità che tu non hai mai toccato
la vita la scopri solo così
c’è gente che ride senza un perchè
Noo, non riesco a
sentire
e voglio volare
Noo lasciatemi stare
sto per impazzire.
Lasciatemi stare che voglio volare
ma voglio imparare a farlo da me
e se cado giù ancora lasciatemi stare
che voglio morire nella mia follia
Ora va molto meglio, posso riprendere la partita
demo
inizia
nuova partita
pausa
riprendi
partita
salva
carica
salvataggio
esci
Appena saliti in aereo ci accordiamo con due passeggeri per
fare in modo di poterci sedere assieme, pensando che scambiando due parole il
viaggio possa scorrere decisamente più veloce; anche se a dire il vero io non
ho nessuna fretta di arrivare, anzi non ho nessuna fretta di far niente!
L’aereo inizia a rollare sulla pista e si alza in volo con una semplicità da
credersi impossibile se non stessi vivendo questa situazione. Sì lo ammetto è
la seconda volta nella mia vita che volo e la prima è stata meno di due ore
fa’.
Vedo Malpensa allontanarsi sotto di me, diventare estremamente
piccola, e con lei diventano piccoli tutti i miei problemi, diventa piccola
Genova e l’Iialia stessa, mi scappa una lacrima.
Durante il viaggio le hostess si rivelano molto gentili, quasi
troppo, addirittura invadenti. Maria commette l’errore di chiedermi:
“Come mai a Houston? Lavoro o divertimento? “
“Non lo so nemmeno io Maria; Houston perché era il primo volo
distante dall’ Italia ma avrebbe potuto essere una qualsiasi altra meta sparsa
per il mondo. Non sto andando in un posto, ma sto lasciando un posto: l’Italia
per l’esattezza. In Italia ho avuto un po’ di problemi ultimamente, problemi
relativamente di poca importanza, niente di irrisolvibile, ma che in questo
preciso momento della mia vita sono troppo grossi per essere affrontati e così
me li lascio alle spalle. Sto cercando di andare oltre, oltre l’italiana percezione
delle cose, sto semplicemente lasciandomi alle spalle ventidue anni di vita per
vedere se sono ancora in tempo per disintossicarmi da quello che la nostra
società mi ha inculcato. “
Vedo Maria estremamente perplessa e poi mi chiede in modo
molto serio:
“Stai scherzando vero? “
“ No assolutamente no! “
“Ohhh Cristo, sto viaggiando con un pazzo scatenato che si
crede il protagonista di un film, ma guarda dammi retta, se vuoi scappare dalla
merda, a Houston ne troverai solamente altra.”
“Non credo che mi fermerò a Houston, anzi credo che ripartirò
prima possibile. “
“E sentiamo un po’, dov’è che vorresti andare? “
“Non lo so, te l’ho già detto quando sarò là vedrò cosa fare e
dove andare, non escludo che magari mi fermi anche un pochino a visitare la tua
città.”
“Folle, tu sei folle, hai idea di quanti soldi ti servano per
affrontare un viaggio come quello per cui sei partito? “
“Beh, qualche soldo ce l’ho, quelli non dovrebbero essere un
gran problema. “
“Allora dammi retta quando sarai nel Texas, non farlo capire,
altrimenti a casa ti ci rimandano subito, ma dentro una bara. Guarda che
l’America non perdona, o sopravvivi o sprofondi! “
“Allora vorrà dire che non mi fermerò a lungo in America”
Maria scoppia in una risata tanto forte da far voltare mezzo
aereo.
“Si può sapere perché ridi, io sto parlando seriamente, lo sto
facendo cazzo! “
“Non ti offendere, semplicemente sei un pazzo, il modo in cui
ti stai facendo scivolare adosso la cosa mi fa impazzire, sembra che neanche tu
ti stia rendendo conto della follia che stai facendo.“
“No, forse no. “
Incomincia un film, mi metto le cuffie e provo a seguirlo, ma
presto mi addormento.
Maria mi sveglia proprio mentre l’hostess sta annunciando di
allacciarsi le cinture di sicurezza perché stiamo atterrando all’ aereoporto
“Newark”, che sono le ore 13.40 “ora americana” e che ripartiremo per Houston
alle ore 15.10. Guardo fuori dal finestrino e sotto di me scorgo New York,
cazzo non ci sono mai stato, dall’alto non sembra certo quella città gigantesca
e caotica che tutti i telefilm americani disegnano.
Maria mi guarda e mi dice che sembro un bambino che scarta per
la prima volta il suo primo regalo, ed effettivamente devo avere un’ espessione
a dir poco allibita. Il contatto con il suolo non è stato dei migliori, ma tutto
sommato non posso affermare con certezza neanche questo, mi sento come un
cucciolo nei suoi primi mesi di vita, che ad osservarlo bene si può notare
quanto per lui sia tutto così nuovo.
Appena usciti dallo sbarco mi sento assalire da quello slang
americano che solo nei film non doppiati avevo già sentito, voglio dire: io
nella mia testa avevo pronte tutte le mia frasette che la Prof. di Inglese ci
aveva insegnato, ma qui non si riesce nemmeno a distinguere le parole che
pronunciano, figuriamoci tradurle. Noto la famigliarità con cui Maria si
destreggia in questo posto, evidentemenmte deve essere piuttosto abituata a
questo viaggio, la osservo mentre parla un perfetto americano con la barista e
ordina fetta di Cheese Cake per lei e…
“Vladi cosa vuoi? ”
“Un caffè grazie”
“Ne rimmarrai deluso“
… e un caffè per me. Assaggio il mio caffè e devo dar ragione
a Maria: è qualcosa di imbevibile; le chiedo se non si possa fare un giro per
la “Grande Mela” mentre aspettiamo l’ora della ripartenza, ma lei mi spiega che
in così poco tempo non si riuscirebbe nemmeno ad uscire dall’aereoporto ed
aggiunge:
“Guarda che qui non siamo in Italia, qui c’è il traffico,
quello vero”.
Incomincia a darmi seriamente fastidio quest’aria da donna
vissuta che deve insegnarmi a sopravivere.
La lascio parlare di non so bene quante altre cose senza
nemmeno ascoltarla e mi perdo a fissare e scrutare le diversità della gente.
Qui, in questo aereoporto, ci sono persone di ogni nazionalità che vanno e che
vengono, ognuna con la sua storia e la sua vita. Chissà per quanti diversi
motivi la gente si trova a prendere un aereo; mi piacerebbe poterli
intervistare tutti e chiedergli di raccontarmi un pezzetto della loro storia.
Una voce annuncia la ripartenza del nostro volo, io faccio un
salto rapido al Duty Free a comprare una stecca di Marlboro, ammetto di aver
dovuto chiedere a Maria come si dice stecca in americano, e già che ero lì e
che mi ci è caduto sopra l’occhio, ho preso anche un dizionaretto tascabile,
che può venire utile, anzi direi che sarà più utile di ogni altra cosa.
Durante il resto del volo chiedo a Maria di indicarmi qualche
posto da poter vedere ed una buona locanda dove poter dormire. Lei insiste
perché io mi fermi a dormire da lei, dicendomi che suo marito lavora in una
grande software house e che si possono permettere una bella villetta con la
camera per gli ospiti. Rifiuto insindacabilmente il suo invito, anche se la sua
presenza come guida e traduttrice mi avrebbe fatto comodo, ma non lo ammetterei
neanche morto.
Un po’ dormendo, un po’ chiaccherando ed un po’ ascoltando
buona musica nel mio walkman, il volo passa ed arriviamo presto al George Bush
Intercontinental Airport di Houston.
Appena scesi dall’aereo mi trovo di fronte ad un aereoporto
molto diverso da come me lo aspettavo, non molto diverso da quello di Genova:
lunghi pannelli grigi si alternano con colonne dello stesso colore, il tutto
spezzato da inserimenti pubblicitari, passamano e porte di colore rosso.
Maria trova subito suo marito che mi presenta; si chiama James,
un uomo sulla quarantina già brizzolato, con occhiali a montatura sottile su
lenti spesse come fondi di bottiglia, vestito nel più classico dei modi: giacca
di velluto con capuccio e pelo interno, maglione, jeans. Il classico babbo
informatico, quello che ad avercelo avuto a scuola nel banco davanti l’avrei
preso a miccellate nelle orecchie tutto il giorno.
Maria si sincera che realmente io non voglia fermarmi da lei e
si congeda, lasciandomi lì da solo. A dirla tutta mi sento un po’ invaso da un
leggero filo di panico, era molto più facile farle fare a Luigi queste cose che
farle realmente, mi faccio forza e vado a cambiare un po’ di dollari, mi soffermo di fronte alla vetrina
del Duty Free ed esco. Appena fuori dall’aereoporto mi accorgo di come la temperatura
sia diversa, fa molto più freddo ma lo si sente sicuramente meno. Riesco senza
fatica a trovare il parcheggio dei taxi, salgo sul primo e gli chiedo in un
pessimo inglese di portarmi al “Sara's Bed & Breakfast Inn” al 941 di
Heights Boulevard, locanda consigliatami da Maria. Il tassista impiega molto
tempo per arrivare a destinazione ed io non riesco a capire se ha fatto il giro
più lungo possibile per spennarmi o se il posto era davvero lontano, ma in ogni
caso, la cosa non mi dispiace, perché così ho il tempo di dare un’ occhiata
alla città, che vista attraverso il finestrino non sembra così complessa e
pericolosa come Maria ha voluto dirmi; sicuramente ci sono molti più vagabondi
che nei vicoli di Genova.
L’albergo visto da fuori è davvero bello, è una casa in stile
fattoria della favole, il tassista mi lascia di fronte alla porta di ingresso,
si prende trentacinque dollari e se ne va augurandomi “good luck”; devo
avercelo scritto in faccia che sono spaesato come un pulcino bagnato in mezzo al
bosco.
UNDICESIMO LIVELLO
Tiro un sospiro, mi guardo un po’ intorno e suono il
campanello. Viene ad aprirmi una ragazza bionda che dall’ aspetto sembra
decisamente più tedesca che americana, non saprei dire se carina o no. Riesco a
spiegarle, coadiuvato dal mio dizionaretto, che avrei bisogno di una stanza e
lei mi consiglia la: Fort Worth Room che ha, addirittura: la televisione, il
bagno privato e il King size bed che non so cosa sia, il tutto per soli
novantacinque dollari a notte.
Sticazzi, mi sa che Maria o mi ha preso per il culo oppure mi
ha preso troppo sul serio quando le ho detto che non dovrei avere problemi di
soldi.
Comunque sia non posso fare altro che accettare e farmi
accompagnare in stanza. La Fort Worth Room è davvero molto bella: le sponde del
letto sono in massiccio legno chiaro incastrate tipo recinto, sopra quella che
dovrebbe essere la spalliera vi è appeso un vero lazo e tutto il resto
dell’arredamento è in stile. Il letto è gigantesco, la televisione sarà un buon
ventotto pollici ed il bagno incantevolmente pulito. Lascio due dollari di
mancia alla ragazza che mi ha accompagnato, molto più brutta di quella che mi
ha accolto; tiro fuori dalla valigia l’occorrente per una doccia e mi tuffo
nella suddetta, scoprendo con gioia che ha anche un sistema di idromassaggio;
l’America mi è già più simpatica. Finita la doccia mi accorgo che si sono fatte
quasi le dieci di sera. Mi infilo in letto distrutto dal viaggio e dalle
emozioni. Nonostante provi a riflettere sul mio folle gesto mi addormento quasi
subito.
Ore 9.50: la luce, che già da tempo, insiste per entrare dalle
quasi inutili persiane stile western, mi sveglia nel più dolce dei modi.
Impiego qualche manciata di secondi per rendermi conto di dove sono. Mi alzo,
mi trascino verso il bagno e compio i miei consueti gesti rituali; apro la
finestra della camera e scopro che è una pessima giornata. Constatando che
Houston, con il cielo nuvoloso è decisamente più tetra e triste, respingo a
fatica la voglia di ributtarmi sotto le coperte, tanto più che tra pochi minuti
dovrei lasciare la stanza. Mi vesto velocemente e scendo nella hall, dove trovo
dietro al bancone della reception, un uomo che credo sia il padre delle ragazze
di ieri sera. Con il benefico aiuto del mio vocabolario e scoprendo con gioia
che il mio interlocutore mastica un poco di italiano, mi accordo per tenere la
camera ancora per una notte; ed avvisandolo che non usufruirò della colazione
compresa nel prezzo lo prego di chiamarmi un taxi. Risalgo in stanza, mi armo
di macchina fotografica digitale e pc
portatile (questi sono “attrezzi da lavoro” che mi sono stati prestati dalla
ditta e che casualmente ho dimenticato di restituire).
Attendendo il taxi nella hall, provo a tradurre quello che i
clienti dicono con il personale, tanto per fare un po’ di pratica con la
lingua, ma ad essere sincero ci capisco ben poco.
Il tassista è un tipo simpatico, di poche parole ma simpatico;
capisce subito che non comprendo molto della sua lingua e credo che in un certo
senso mi prenda anche un pochino per il culo per questo. Comunque sono riuscito
a fargli capire di portarmi in centro città.
Il centro di Houston è esattamente la fotocopia delle grandi
città americane che vediamo nei film, manca solo il fumo che esce dai tombini;
non ho mai capito perché nei film americani c’è il fumo che esce dai tombini.
Comunque sia il paesaggio è molto diverso dal nostro, sicuramente più caotico e
frenetico. Passeggio un po’ a zonzo, senza una meta ben precisa, senza sapere
se, e cosa c’è di bello da vedere in questa città, ma sinceramente non
m’interessa nemmeno molto fare il turista; sentirmi finalmente estraneo e non
nauseato dalle solite cose mi appaga già a sufficienza. Vedere cose nuove come
cartelloni pubblicitari animati tipo video musicale e fatti interamente di
fibra ottica è già abbastanza scenico.
Passeggiando m’imbatto in un parco, credo che sia il parco
centrale della città: una grande pista per fare footing lo circonda, laghetti e
campi da pallacanestro ovunque, chioschi e carretti vendono ogni genere di
cibarie: fish & chips, hot dog, bacon eggs, apple pie, cheese cake e molte
altre cose che nemmeno riesco a pronunciare, figuriamoci a mangiarle.
Mi siedo su di una panchina, ben distante dalle altre occupate
da vagabondi e barboni, ma molto vicino ai viali centrali. Questa non è una
forma di razzismo, ma di paura, non nego di essere spaventato da questo mondo
così diverso dal mio, dove tutti sono a casa e sono perfettamente coscenti
della situazione; tutti tranne me. Accendo il mio portatile e scarico le foto
che ho scattato girovagando; sono estremamente tentato di mandare una mail a
qualcuno che conosco raccontandogli cosa sto facendo e come lo sto facendo, ma
mi rendo conto senza doverci pensare troppo che sarebbe stupido ed inutile.Fumo
un paio di sigarette e ne offro altre quattro ad un gruppo di ragazzini che
credo abbiano bossato la scuola. Lo stomaco borbotta, è ora di pranzo, mi reco
ad uno dei chioschi e mi sforzo di assaggiare un hot dog che a vederlo non fa
certo venire voglia di mangiarlo e preso da una strana forma di masochismo mi
compro un pacchetto di Fish & Chips per la cena. Il mio bisogno del caffè
dopo pasto mi spinge fuori dal parco, in un bar dove non c’è molta gente: io,
un paio di poliziotti, un tipo vestito bene direi un manager o roba simile e
due ragazzi della mia età che si infilano le mani ovunque seduti nell’angolo
più imboscato del bar.
Il caffè è forse peggio di quello bevuto in aereoporto a New
York, credo che rimpiangerò parecchio l’espresso italiano; questa brodaglia servita
nelle brocche non ha neanche il nome del nostro caffè, qua lo servono con una
effe e senza accento.
Uno dei due sbirri, dopo avermi osservato per tutto il tempo
che sono stato seduto al tavolino, si alza e viene da me, mi fissa con l’aria da sceriffo
americano e parlando nello slang più stretto per non farmi capire, mi chiede di dove sono, qual’ è il mio nome e
cosa ci faccio in america. Raccolgo tutta la calma che possiedo, si dice che
gli sbirri da queste parti non vadano tanto per il sottile, gli do’ il
passaporto di Strappa e gli dico che sono un semplice turista.
Il suo compare si alza e si porta subito al fianco dello
sbirro che mi sta di fronte; mi chiedono di appoggiare le mani sul vetro alle
mie spalle e di allargare le gambe per una perquisa.
UAAOOO, proprio come in un film poliziesco, che sballo,
neanche due giorni che sono in America e sono già protagonista di una delle
scene più famose di questo paese, se mi fermassi un mesetto potrei far
sfigurare Al Capone!
Comunque la perquisizione non da i frutti sperati dagli sbirri
e sono costretti a restituirmi il passaporto ed andarsene con le orecchie basse
e la coda in mezzo alle gambe.
Esco anch’io dal bar, e mi rimetto in cammino, cercando di
trovare un vigile (esisteranno qua?) o comunque qualcuno che mi possa indicare
la strada per il Terminal Bus, praticamente, per il capolinea dei Lazi.
Passeggiando per la nona strada incappo in un negozietto che vende fra le altre
cose anche delle guide turistiche con relativa cartina della città. Appena
entrato mi accorgo di essere finito in uno di quei posti dove i ladri vanno a
rivendersi la roba o dove i poveracci si vendono quel poco oro di famiglia per
racimolare qualche dollaro; sono entrato da un ricettattore! Il tipo dietro al
bancone, uno sulla quarantina molto grasso e con dei piccoli baffi che
accentuano la rotondità del suo viso, vestito con un golf a V che neanche gli
copre per intero la pancia, si stupisce parecchio nel sapere che volevo
veramente una di quelle cartine. Dopo averla presa in vetrina ed avergli tolto
da sopra un due dita abbondanti di polvere prova a rivendermela per venticinque
dollari. Eh no, bello non sono mica un turista vero io, non ho nessuna
intenzione di fare la parte del pollo che compra e fotografa qualunque americanata!
Dibbattendo un po’ sul prezzo, per quanto mi sia possibile in questa lingua,
non ne ho ricavato un granchè, ma nel frattempo è entrato un tipo che deve
vendere qualche cosa di losco. Il grassone non mi considera più e si precipita
a servire l’altro cliente lasciandomi la cartina sotto il naso. Non mi è molto
difficile individuare il Terminal Bus e scoprire che si trova in Garden Street.
Esco facendo finta di non essere più interessato all’acquisto, ma il tipo
neanche se ne accorge.
Coglione, avrei anche potuto prendermela quella cartina.
Percorro tutta la via sino ad arrivare al prossimo incrocio, dove incontro un
tipo in divisa; non è uno sbirro ma credo che sia la versione americana dei
nostri vigili, allora forse esistono anche qua; chissà se sono inutili come
quelli italiani!
Appena gli chiedo dove si trova Garden Street questo si lascia
scappare un ghigno come se spiegarmelo fosse la cosa più impossibile e lui
fosse consapevole che non la troverò mai quella malefica strada; invece, con
mia grande soddisfazione, riesco a tradurre abbastanza bene le sue
informazioni; e anche se capisco che sarà una lunga passeggiata m’incammino
nella direzione spiegatami. Mi resta il dubbio di che cazzo aveva tanto da
sghignazzare. Passeggiando mi accorgo che Houston è una città piuttosto banale,
tutta uguale, grigia, triste, monotona, una palla insomma. Non è che io mi
aspettassi chissà che cosa, però se prendiamo le nostre città sono più
interessanti. Bologna ad esempio, ha tutte le sue cosine a posto, ha le torri degli
Asinelli sotto le quali ti puoi dare un appuntamento sentendoti almeno un poco
protagonista di Jack Frusciante è uscito dal gruppo, le vie lastricate in
porfido con tutti i suoi portici,il Link e tutti gli altri Centri Sociali, le
maxi feste dell’unità, il capodanno in piazza, il carnevale esagerato, è una
città caratteristica! Qui ovunque vai è tutto perennemente uguale, barboni,
poliziotti, asfalto, palazzoni grigi, gente che corre… CHE PALLA!
Impiego quasi due ore ad arrivare al Terminal Bus; chissà
perché questa via si chiama Garden Street, non c’è un fiore a pagarlo oro!
Dopo una doverosa sosta al bar assaggiando un pessimo liquore
dallo strano nome m’interesso subito alle partenze ed ai relativi orari.
Mi cade l’occhio sulla corriera “671” diretta a Brownsville,
prima partenza prevista per domani
mattina ore nove e trenta: CI SARO’!
Esco dal Terminal, fermo un taxi, altro gesto americano che ho
sempre sognato di fare, e mi faccio riportare al Sara's Bed and Breakfast.
Trascorro quel poco tempo che manca alla cena nella hall dell’ albergo,
conoscendo finalmente la famosa Sara e provando a fare due chiacchere con lei,
ma la cosa non mi è riuscita molto bene. Sara, una donna sulla quarantina,
madre delle due ragazze di ieri sera, non molto bella, vedova da dodici anni e
tra l’altro simpaticissima, si accorge del mio programma per la cena e quasi
schifata mi obbliga a buttare i miei Fish & Chips ed unirmi a loro!
Una cena frugale ma con cibi costosi, degna della casa che ci
sta ospitando ed almeno in parte del viaggio che sto facendo. Le due ragazze si
divorano letteralmente le grigliate di carne e la purea di patate novelle
lasciandomene solo un assaggio, la madre preferisce delle verdure miste
assortite, io poco di tutto. Appena finito di mangiare e di ingerire quella
sottospecie di caffè malfatto, Sara si alza da tavola, annunciando di avere una
sorpresa per me. Apre un’anta della credenza in stile ed i miei occhi
s’illuminano alla sola visione di quel ben di Dio che ormai pensavo di non
poter più assaporare. Grappa Italiana di moscato. IMMENSA GIOIA! Sara stappa la
bottiglia dicendo che se l’era dimenticata qui un cliente italiano qualche anno
fa e che lei non beve molto. Lei no, ma io sì! Piatto ricco mi ci ficco!
E così un po’ chiaccherando, che annebbiato dai fumi del buon
vitigno mi vengono anche meglio i discorsi in americano, ed un po’ fumando
passiamo la serata tutti e quattro divertendoci e raccontandoci un po’ di tutto
sulle nostre rispettive nazioni. Jenny , la figlia più piccola di Sara, ha provato
a chiedermi almeno cinque volte il perché del mio viaggio in America, ma io ho
sempre sviato l’argomento, anche perché nella sua lingua mi sarebbe riuscito
difficile esprimere un concetto che già faccio fatica a spiegare in italiano;
così Jenny ha tagliato dicendomi che noi italiani siamo sempre così misteriosi.
Ho passato una buona parte della serata tentando di estirpare il loro concetto
di:
“italiano=spaghetti,mandolino,pizza,mafia” ma non credo di
esserci riuscito molto bene; anzi avendogli svuotato quasi tutta la bottiglia
devo aver modificato la loro idea in:
“italiano=alcolizzato,asciugagrappe”.
Si è fatto molto tardi e le due sono già passate da un pezzo
quando io ubriaco del tutto me ne vado in stanza a dormire, mentre Sara e le
sue figlie ubriache per metà o poco più; salutano il portiere di notte e si
recano nell’ufficio dell’albergo per non so bene quale motivo.
Ore otto in punto:
la sveglia del telefono, più irritante di un Tamagochi, mi
strappa dai miei sogni.
Mi preparo velocemente, infilo nel mio vecchio zaino ex scout
quel poco che avevo tolto, ripongo accuratamente il pc e la macchina
fotografica nella loro valigetta da viaggio e vado ad usufruire della mia
“breackfast” .
Di Sara e delle sue figlie neanche l’ombra, nella hall c’è nuovamente
il signore di ieri mattina, mentre nella sala da pranzo, un ragazzino poco più
che quindicenne mi serve del pane tostato con uova e bacon. Faccio molta fatica
a degluttire roba simile a quest’ora di mattina, ma non so assolutamente come
sarà il viaggio che mi aspetta e quindi meglio eliminare in partenza il
problema cibo.
Nel frattempo arriva Sara che mi chiede dove sono diretto e
dopo aver confabulato con il tipo della hall mi dice che se voglio mi
accompagna lui al terminal bus. Io provo a insistere che non è il caso, che
prendo un taxi, ma alla fine mi ritrovo in macchina a scroccare il passaggio e
risparmiare qualche dollaro.
Arrivati al Terminal io scendo al volo ma il tipo mi chiama:
“Hey Vladimiro!! “
“Tell me”
E col pugno chiuso ed il pollice alzato: “Good lucky boy“
Non sapendo come si dice “crepi il lupo” in americano mi
limito a sorridergli e restituirgli il gesto.
DODICESIMO LIVELLO
Appena entrato nel Terminal mi metto in coda per il biglietto,
ovunque la stessa storia.
Dopo circa quindici minuti viene il mio turno, l’impiegato
della biglietteria, un uomo di colore di circa cinquant’anni, finge di non
capire il mio inglese e si diverte un po’ con me e solo quando la gente in coda
inizia a scaldarsi ed a difendermi, riesco ad avere il mio biglietto. Ancora
una volta il passaporto di Strappa ha funzionato.
Nella sala d’attesa, o meglio in quell’amasso di panchine
fredde che osano chiamare sala d’attesa, trovo un volantino su Brownsville:
“Venite a scoprire Brownsville!
Bagnata dalla foce del delta del Rio Grande, Brownsville è una
destinazione perfetta, con il Messico a due passi e le spiagge del golfo vicine. Troverete il
fascino mistico culturale del sud-ovest ed il miglior clima del Texas”
Beh, non è certo la miglior presentazione che abbia letto ma è
decisamente molto invitante.
Mentre aspetto di poter salire sulla mia corriera, giochicchio
con il biglietto e mi cade l’occhio sulla tariffa kilometrica: Houston –
Brownsville: 352 miglia!
CAZZO, se lo sapevo sceglievo un’ altra meta, o perlomeno
spezzavo il viaggio in più tappe; ma comunque sia ormai ho pagato, caro, il
biglietto e me lo sfrutto fino in fondo.
Appena il bus apre le porte io ed i miei momentanei compagni
di viaggio ci amassiamo peggio che ad un concerto. Appena salito sulla corriera
cerco di trovarmi un posto comodo ed un decente compagno di viaggio. Devo
scegliere fra le persone che hanno lasciato un posto libero nei sedili
destinati a due viaggiatori, perché occuparne uno vuoto significherebbe
lasciare agli altri la facoltà di scegliermi, mentre voglio essere io a
decidere con chi viaggiare. Con una rapida occhiata, scartando le persone di
taglia extra large, quelle non troppo pulite e quelle con troppi bagagli, non
mi resta che scegliere fra: un signore che ha tutto del commesso viaggiatore,
troppo serio finirebbe per studiare qualche listino o scrivere chissachè su
qualche strana agenda;
un prete, potrebbe essere un buon interlocutore ma non è
prorpio un momento da discorsi mistici, e poi come dicono i 99Posse “non
parlerò di Dio con chi sostiene una religione”;
una ragazza che oltre a non essere bella ha già iniziato ad
allargarsi sull’altro sedile, la getterei dal finestrino chiuso, che già
sarebbe difficile farcela passare se fosse aperto;
ed una ragazzina sui sedici anni che non capisco come possa
fare un viaggio tanto lungo da sola. Sceglierò lei.
Posiziono il mio zaino nello scomparto sopra i sedili e
sfoggiando il mio miglior sorriso:
“E’ libero vero? “
“Sì, è libero, fai pure”
Mi siedo
“What’s your name? ”
“My name is Marlene”
Etc etc, lei si chiama Marlene, non ha sedici anni ma bensì
ventiquattro, è più carina di quanto mi fosse sembrato, ha sicuramente un bel
viso ed un discreto seno; veste abiti piuttosto leggeri per questo periodo
dell’anno: serafino grigia sotto una camicetta aperta, pantaloni bianchi
trasparenti quasi estivi e direi (ma non posso affermarlo con certezza visto
che è seduta) perizoma. Ha una lunga e folta coda di capelli biondi che
s’intrufola fra le sue spalle ed il sedile, dalla quale lascia liberi solo due
ciuffetti che le scendono lungo il viso. E’ diretta a Brownsville per un
colloquio di lavoro.
L’autista annuncia la partenza ed avverte che l’arrivo è
previsto per le ore ventitrè e trenta e che l’autobus farà tre soste durante il
viaggio, una a pranzo, una a metà pomeriggio ed una a cena.
Marlene si mette a ridere quando le chiedo di ripetermi
lentamente ciò che l’autista ha detto. Beh, un modo un po’ buffo per rompere il
ghiaccio ma ce l’abbiamo fatta e la prima ad intavolare un discorso è proprio
lei:
“E tu come mai su questo bus? ”
E qua sfoggio tutte le mie conoscenze d’inglese per provare a
spiegarglielo:
“Beh, vedi io sto fuggendo”
“Sei ricercato in Italia? “
“No, ricercato no, forse dal mio principale per uccidermi, ma non
certo dalla polizia, io fuggo dalla mentalità italiana troppo ristretta per
viverci dentro e troppo aperta per modificarla, io sostanzialmente mi allontano
in una direzione non bene specificata solo per lasciarmi alle spalle quello che
fin troppo bene conosco: lo sfruttamento sul lavoro, l’inspiegabile
appiccicosità delle persone, l’ipocrisia, le maldicenze e comunque da tutto
quello che mi ha riguardato e raggiunto fino a ieri. Cerco solo di farmi una
nuova vita, diversa, più sana, più sincera, più reale, meno assillante e
soprattutto più lenta” .
“E pensi di farlo a Brownsville tutto questo? Non credo che
sia una città troppo diversa da quelle italiane”.
“No, Brownsville è solo un punto di passaggio, un intermezzo
fra ieri e domani, non so dove e se smetterò di viaggiare, non so se mi fermerò
in un posto e cosa farò una volta arrivato, per il momento vado, dove non lo so
ancora”
“Sai io in fondo ti stimo, vorrei averlo il coraggio di fare
una cosa del genere, anche io non sono affatto soddisfatta della mia vita e
vorrei avere le palle per andarmene, ma non solo non ho il coraggio, ma non ho
neanche i soldi”
“Beh, per il coraggio… è il raptus di un momento, se te lo
programmi non lo fai, mentre per i soldi se non vuoi viaggiare e vivere da
punk-a-bestia, effettivamente qualcosa da sputtanarti devi avere. “
“Ma un giorno ci riuscirò, lo so che ce la farò, ed allora ti
verrò a cercare.”
Estrae un libro da uno zainetto di jeans e si mette a leggere,
io metto le auricolari del walkman alle orecchie e mi abbandono sul sedile
cullato dalle note Ska di “Balla e difendi” un classico.
Dopo un po’ lei mi bussa sulla spalla e mi toglie un
auricolare:
“Ma voi italiani sentite sempre la musica a questo
volume? Senti ti dispiace se dormo un
pochino? “
“No figurati, perché dovrebbe, fai pure”
Ranicchia le gambe sul sedile, alza il bracciolo che separa i
due posti ed appoggia la testa sulla mia spalla.
Ora, io non so queste americane che usanze abbiano, ma noi
italiani su un gesto simile ci fantastichiamo su un mezzo film porno. E ora che
faccio? Boh, io provo ad abbracciarla in modo disinvolto da far sembrare che
sia una comodità per la posizione e poi vediamo che succede.
Dorme davvero! Che sfiga! Niente porno! E russa pure! Ci manca
solo che mentre dorme le si apra la bocca e che sbavucchi un pochino e siamo a
posto.
Provo a dormicchiare un po’ anche io ma non ci riesco, vorrei
cambiare il cd nel walkman ma ho paura di svegliare Marlene, mi vengono i
crampi se non cambio posizione, questa dorme da più di due ore! AIUTO!
Ore tredici il bus si ferma in una specie di autogrill in
mezzo ad un deserto che in confronto la nostra Pianura Padana sembra montuosa,
io sveglio Marlene e riesco finalmente a liberare il braccio che non sentivo
più e che adesso mi formicola in modo fastidiosissimo.
“Ma che ora è? Quanto ho dormito? “
“E’ l’ora di pranzo, hai dormito tre ore”
“Ho una fame pazzesca”
“Anch’io, andiamo”
Il posto è il più classico degli autogrill americani, mi
ricorda quello del film “Brivido” con il tipo che cuoce gli Hamburgher su una
piatra bene in vista ed un mare di camionisti che fanno un gran casino e
s’ingozzano da fare schifo. Io non capisco quasi nulla di quello che la
cameriera ci spiega come menù, allora Marlene mi chiede se mi fido ed io la
lascio fare.
Pochi minuti dopo la cameriera torna con due piatti di
salsicce, wurstel e patatine. Marlene ricopre il tutto con un fiume di ketchup,
forse era meglio se ordinavo a caso.
Mentre mangiamo lei mi racconta un pochino della sua storia,
di come il fato le abbia fatto presto capire la differenza fra una favola e la
vita. Una ragazza sostanzialmente
fragile, impaurita ma determinata, cresciuta senza mamma e con l’eterno chiodo
fisso di trovare un ragazzo premuroso che le funga anche da sostituto del padre
tiranno e severo, ricerca che classicamente sfocia sempre invano. Mi da un po’
l’idea di essere una persona che sta ancora cercando un qualcosa che la lasci
crescere liberamente e che le restituisca quelle pazzie giovanili che la vita
non le ha mai concesso. La ritrovo molto in alcune parole di Guccini:
“Con l’illusione pronta per l’uso da eterna vittima di un
sopruso, abuso di un mondo chiuso e fatalità” e mi sembra che abbia voglia di
gridare al mondo di lasciarla stare e che:
“Ognuno vada dove vuole andare, ognuno invecchi come gli pare,
ma non raccontare a me che cos’è la libertà”
Finito il pranzo si riparte; il resto del viaggio si consuma
più o meno velocemente, fra due chiacchere con Marlene ed un paio di altre
soste non molto differenti dalla prima. Arriviamo al Terminal Bus di
Brownsville a mezzanotte passata, quando appena scesi dal Pulman Marlene mi
chiede:
“E adesso che fai? Come ti organizzi il resto del tuo viaggio?
“
“E che ne so io! Mi cercherò un alberghetto dove dormire e poi
domani vedremo”
“Beh, io mi fermo a dormire qui, se non ti fa troppo schifo
puoi tenermi compagnia”
“In che senso ti fermi qui? “
“Qui, nella sala d’attesa, domattina ho il colloquio alle nove
e non mi posso certo permettere un albergo, se mi fai compagnia mi passa di
più”
“La sala d’attesa non è il massimo delle mie aspirazioni, ma
dopotutto sto facendo una follia, facciamola fino in fondo! “
La sala d’attesa è molto meglio di quanto immaginassi,
perlomeno è pulita e non c’è nessuno. Marlene stende un sacco a pelo estivo fra
due panchine in modo da essere il più riparata possibile e mi chiede se voglio
condividerlo con lei. Non ho molte altre possibilità visto che non sono
assolutamente attrezzato per dormire all’ adiaccio.
Mi stendo al suo fianco e mi metto sotto la testa la valigetta
contenente il pc e la macchina fotografica.
Lei si ranicchia un po’ ed appoggia la testa sul mio petto,
poi mi chiede:
“Cos’hai in quella borsa, la custodisci come se ci fossero dei
milioni di dollari in contanti”
“No, niente soldi, solo un portatile ed una macchina digitale”
“Cosa??? Hai un portatile e non mi dici niente? “
Schizza in piedi e mi tira per un braccio dicendomi che
andiamo a connetterci.
Mi porta in una sala telefonica dove oltre ai normali telefoni
pubblici, vi sono anche dei flat per pc che funzionano con delle banali tessere
telefoniche che lei ha. Mi sento un troglodita!
Connetto il pc e lei mi fa subito vedere il sito dell’azienda
dove domattina sosterrà il colloquio; è molto sicura ne parla come se già ci
lavorasse.
E navigando, navigando mi convince a mandare una mail ai miei
genitori per rassicurarli sulla mia salute.
Naturalmente i miei genitori non sono molto pratici di
informatica e di certo non utilizzano la posta elettronica; così sono costretto
a mandare la lettera a Miriam, pregandola di stampare il tutto e di farla
pervenire ai miei.
Ciao Mi, come te la passi con il Boss?
Spero bene e non lo dico per gentilezza o convenienza, lo
penso davvero. Come ben saprai, suppongo che la voce si sia sparsa alla svelta,
io non sono più in Italia, ho preferito allontanarmi per un po’, non so ancora
bene per quanto tempo, ma diciamo che starò via il tempo che mi servirà per
ritrovare almeno una parte dello spirito che una volta avevo, e che tu allora
conoscevi bene e forse stimavi. Sai che ultimamente stavo molto stretto nel
ruolo che interpretavo e che non sarei resistito a lungo vestendomi da me
stesso; come sai che forse l’unico legame che mi teneva ancora ancorato a quella vita eri tu. Ora che tu non fai più
parte del mio tempo, ma sei un passato da dimenticare alla svelta, non avevo
più ragioni di martoriarmi a lungo, continuando a vivere in un aspetto non mio,
che mi ero costruito forse per convenienza, o per illudere me stesso che
anticipando quel cambiamento che sarebbe comunque arrivato col tempo, l’avrei
reso meno doloroso.
Questa lettera non è per nessun altro motivo, se non quello di
chiederti di farmi da porta voce con i miei genitori, rassicurandoli e
dicendogli che è tutto a posto e prima o poi, forse, troverò il coraggio per
telefonargli.
So che mi farai questo favore, quindi grazie anticipatamente .
VLADI.
Marlene, che conosce un poco dìitaliano, mi chiede qualche
spiegazione su Miriam e sembra sinceramente interessata quando le parlo di Mi,
di Ale o del signor Fantoni e quando in pratica le spiego le vere cause del mio
espatrio. Lei continua a fare segno di sì con la testa e quando ho finito
ribadisce che mi stima e che vorrebbe solo avere il coraggio di fare lei quello
che sto facendo io e che tutto sommato non un è gesto poi così folle, ma lo
trova quasi naturale; dice che secondo lei la razza umana evolvendosi si è
imprigionata da sola e si è costruita attorno ancore dalle quali non può più
staccarsi, ma che per natura noi saremmo molto più libertini di quanto ci
obblighiamo ad essere.
Non posso fare altro che darle ragione.
Resta molto incuriosita quando dalla barra di avvio apro
esegui e digito c:\the black ship\ start.exe
Le spiego che quella che stò per farle vedere è la prima
relise del mio gioco e che il prodotto finale è molto diverso e sicuramente più
curato, ma questa basta comunque per farle capire il tipo di gioco che è.
“Vedi The black ship è un gioco della nuova generazione, dove
non sei obbligata a seguire dei percorsi o delle storie già inventate, ma puoi
creare tu il gioco stesso, la storia, i personaggi che ruotano attorno al
protagonista, vestirli, dargli un nome, un’identità. Questo chiaramente ha
fatto sì che la grafica ne risentisse un po’ ma sicuramente ha reso il gioco
molto diverso da tutti gli altri. Ogni volta che sbagli puoi riniziare provando
un’altra storia, un’altra avventura ambientatata in epoche diverse o in luoghi
diversi, l’unico scopo è quello di dare a Luigi, il protagonista e l’unico su
cui non hai potere di interagire, la possibilità di abbandonare la vecchia vita
e di scappare lasciandosi tutto alle spalle creandosi un habitat più
favorevole. “
“Proprio come stai facendo tu”
“Non nego che aver lavorato per molto tempo a questo progetto
abbia scatenato in me l’affiorire di un’idea che forse già premeditavo, ma che
non ho mai avuto il coraggio di mettere a fuoco. Forse sono riuscito a creare
questo gioco proprio perché ho lasciato che i miei desideri si
materializzassero, generando una realtà virtuale dove io stesso mio sono
rifugiato per molto tempo.”
“Posso provare? “
“Certo”
E dopo circa due ore di gioco, durante le quali io un po’ ho
dormicchiato ed un po’ ho osservato le scelte di Marlene, lei si degna di
esprimere un giudizio:
“E’ stupendo, è un gioco bellissimo, ti fa sfogare! E’
stupendo, ma in Italia è andato forte vero? “
“Non lo so, sono scappato la mattina della presentazione
ufficiale alla stampa”
“Sei un pazzo, secondo me sarebbe stato un successone”
“Boh, non lo so, e sinceramente non mi interessa molto, non
più ormai. Io torno in sala d’aspetto che sto cascando dal sonno, quando hai
finito spegni il pc ed imboscalo in posto sicuro che non vorrei che me lo
facessero saltare. Buonanotte”
“Good Night”
La luce del giorno ed il brusio della gente che affolla il
Terminal fanno sì che io mi svegli e che mi accorga che Marlene non c’è. Il
primo impulso è quello di controllare il pc e la macchina fotografica,
quest’ultima non c’è.
CAZZO, mi ha fregato! Faccio su le mie cose alla svelta e mi
precipito verso l’uscita sperando che Marlene sia andata davvero a quel
colloquio e di poter quindi recuperare la mia macchina.
“Dove vai di corsa? “
Marlene con la mia macchina in mano.
“Ma cosa stai facendo?! “
“Sto scattando un paio di foto e mi stanno venendo anche bene
perché? “
“Niente lascia perdere, andiamo fare colazione?”
“Non dirmi che hai pensato che ti avessi fregato!“
“Lascia stare davvero, sono stato uno stupido scusa, andiamo a
far colazione? “
Lei si avvicina a poco più di un dito dal mio viso:
“Chiariamo questa cosa subito, io non sono certo una
santerellina, ma certe infamate non le faccio, è chiaro!? Non a te perlomeno” E
mi da un bacio veloce sulle labbra. “Ora andiamo a far colazione, offri tu! ”
Al bar lei ordina un the e da buona americana un toast con
pancetta e uovo, mentre io mi limito ad un capuccino ed un kraphen accusando
gravemente la nostalgia di quelle meravigliose e fraganti strisce di focaccia che si trovano
in tutti i bar di Genova. Mangiamo la nostra colazione quando mi s’illuminano
gli occhi notando che dietro il banco del bar, in mezzo alle altre bottiglie,
ce n’è una con una eticchetta gialla con su scritto: Oro de Oxaca Mezcal. La
vicinanza col Messico si fa sentire. Sorseggio il mio mezcal sotto gli occhi
schifati di Marlene che mi accusa di essere un alcolizzato, perché sostiene che
solo loro bevono alla mattina presto.
TREDICESIMO LIVELLO
Verso le otto e trenta usciamo dal Terminal e lei si destreggia abilmente
fra le strade di Brownsville, raggiungendo in pochi minuti la B.R.W. dove ha il
colloquio.
“Ed io che faccio, ti aspetto qui? “
“Sì, non ci dovrei mettere molto, non ti far venire in mente di sparire ok?
“
“E dove vuoi che vada? Ci vediamo dopo”
“Ok”
“Ehi Marlene… good luck”
Ma lei non risponde e prosegue la scalinata che porta all’interno dell’edificio
alzando verso di me il pollice della mano destra. E così continuo a non sapere
come si risponde in americano. Mentre sale le scale posso notare i suoi
pantaloni bianchi e semi trasparenti farsi strada in mezzo al perizoma. Non
nego che la ragazza inaspettatamente m’interessi.
Aspetto per più di due ore, fumando non so quante sigarette, che Marlene
riappaia da quella porta a vetri e che entusiasta saltelli fino a me e che mi
dica che l’hanno assunta e che presa dall’euforia mi dia un altro bacio; ed
invece la vedo uscire con le orecchie basse e la coda in mezzo alle gambe, con
un broncio che non ha bisogno di spiegazioni. Senza chiederle niente le cingo
le spalle e la stringo forte, poi ci avviamo verso la strada.
Fermo il primo taxi e faccio salire Marlene che mi guarda stupita, dico al
tassista di portarci in un luogo dove ci si possa divertire, ma lui finge di
non capirmi ed allora Marlene gli ripete la stessa frase in slang piuttosto
stretto e dal tono in cui l’ha sparato praticamente a fare in culo capisco che
il suo umore è molto peggio di quanto credessi.
Quell’idiota del tassista ci porta al Gladys Porter Zoo al 500
di Ringgold Street, che non è esattamente il luogo che pensavamo noi, ma ce lo
facciamo andare bene.
Marlene riesce a svagarsi ed a recuperare quanto basta del suo
umore per non farmi passare una giornata del cazzo; così tra un gorilla ed un
leone ci passiamo quasi allegramente il pomeriggio.
Alle diciannove circa, lei mi dice che deve tornare al
terminal per prendere il bus che la riporterà a casa; che dovrà dire a suo
padre che non l’hanno assunta e che lui s’incazzerà molto e che molto
probabilmente la suonerà anche. Io non so sinceramente cosa dirle, ed anche se
lo sapessi non lo saprei fare in inglese. L’unica cosa che riesco a dirle è di
accompagnarmi in un albergo, così io mi posso prendere una stanza e lei si può
fare una doccia al volo. Accetta.
Al Cameron Motor Hotel, un postaccio in 912 E di Washington
Street, hanno una hall molto povera, anzi direi quasi che non c’è la hall. Il
vecchietto che ti riceve farebbe fatica a sentire l’esplosione di una bomba,
figuriamoci se riesce a capire quello che gli chiedo; così interviene
nuovamente Marlene che con mio stupore chiede una camera doppia e guardandomi
fisso negli occhi mi dice:
“Te l’ho detto che non sono un infame, non posso abbandonarti
da solo in questo posto, non riusciresti nemmeno ad ordinare un caffè”
Le sorrido, afferro la chiave della stanza e le chiedo di
farmi strada. La camera è molto povera, ma sufficentemente pulita, mentre
Marlene è sotto la doccia io do una rapida occhiata ad una carta geografica che
ho trovato in un comodino.
La sento chiudere l’acqua ed uscire dalla porta del bagno alle
mie spalle:
“Che fai di bello?”
“Ma niente, davo un’ occhiata alla carta per vedere cosa c’è
di bello vicino al Texas, se domani tu vai via io che ci sto a fare qui, mi
sposterò anch’io.”
“Fammi un favore chiama la hall e chiedigli se mi portano
degli asciugamani, che l’unico che c’è è così piccolo che non basterebbe ad un
nano”
E la sento sdraiarsi sul letto acanto al mio.
“Sai, pensavo di andare a Città del Messico” e alzo la
cornetta del telefono sul mio comodino.
“Come vuoi, tanto io non ti mollo”
“In che senso non mi molli” e per lo stupore mi volto di
scatto e la vedo sdraiata sul letto con legato in vita un asciugamano che non
le copre neanche il pube e lascia intravedere un po’ di pelo ed il seno
completamente nudo appoggiato al corpo.
“Perché mi guardi così? Non hai mai visto una ragazza in
topless? “
Non mi esce nessuna frase in inglese e resto lì a fissarla
sbigottito come un bambino che per la prima volta leva gli slip alla
fidanzatina. Dio che figura da babbo.
“Guarda che hai la chiamata aperta, digli degli asciugamani”
Mi volto, riprendo la cornetta e chiedo qualche asciugamano in
più; lei nel frattempo si alza e ritorna in bagno. Bussa il tipo dell’albergo e
mi passa gli asciugamani dalla porta che apro solo un pochino per evitare che
possa vedere Marlene.
Appeno richiudo la porta lei ritorna nella stanza e si toglie
quel piccolo pezzo di stoffa che a malapena le copriva quel poco folto
cespuglietto riccio.
Io non le passo gli asciugamani e l’abbraccio provando a
baciarla, ma lei si divincola, si copre e mi dice di non fraintenderla, di non
farmi illusioni, perché anche se ha deciso di farmi da compagna di viaggio non
vuol dire che mi voglia scopare. Non ancora penso fra me e me.
“E comunque che vuol dire esattamente che non mi molli?”
“Beh, mi hai convinto, questo tuo viaggio verso la pace
assoluta dei sensi, verso qualcosa di nuovo e sconosciuto... mi hai convinto!
Bisogna che lo faccia adesso, dopo tutto lo hai detto tu stesso che si tratta
del raptus di un momento e che non bisogna rifletterci troppo! Vengo con te, ti
seguo. Daccordo non ho molti soldi, ma se mostro un po’ di tette la sera in qualche nigth, dovrei
tirare su qualche dollaro, quanti bastano per iniziare “.
Ed intanto finisce di rivestirsi.
“L’ho già fatto molte altre volte in passato, quando ho
bisogno di racimolare qualche soldo, mi infilo nel primo nigth che trovo e
chiedo di potermi esibire la sera dopo. Fai vedere le tette a qualche
vecchietto, li ecciti un po’, e senza fatica e senza doverti vendere del tutto
riesci a tirare su anche duecento dollari, se gli spettatori sono generosi con
le mance. In fondo sono una donna, sò bene come sfruttare il mio corpo”.
Mi sà che mi sono fatto un’idea non proprio corretta su
Marlene, non è esattamente la brava ragazzina cresciuta a suon di pattoni
ricevuti dal padre, penso che dovrò rivedere un pochino i miei piani. Per
portarti a letto una così ti ci vuole un preservativo spesso almeno quanto un
copertone da camion.
QUATTORDICESIMO LIVELLO
Sedici mesi dopo, ore undici, Porto Alegre, Brasile.
PORTO ALEGRE: città del Brasile sudorientale, capitale dello stato di Río
Grande do Sul e porto situato all’estremità della Lago dos Patos, che si
affaccia sull’oceano Atlantico. Situata alla confluenza di cinque fiumi, Porto
Alegre è il più importante centro commerciale del Brasile a sud di São Paulo.
Le attività economiche della città includono industrie alimentari, chimiche,
meccaniche, conciarie, cantieri navali e manifatture tessili, mentre il porto,
dotato di infrastrutture moderne, esporta principalmente prodotti agricoli e
dell’allevamento. La città, servita da un aeroporto internazionale, è sede
dell’università federale di Rio Grande do Sul e di un’università cattolica.
Porto Alegre fu fondata intorno al 1742 da immigrati portoghesi provenienti
dalle Azzorre. Abitanti: 1.263.239.
La semi relazione fra me e Marlene si è troncata quattro giorni fa’, quando
lei dopo una folle notte al Theatro Sao Pedro (che a differenza di quanto il
nome lasci immaginare, è una delle discoteche più trasgressive della città), ha
deciso di mollarmi per continuare il viaggio con Habbib, un ragazzo molto
benestante, di colore, che le ha promesso di portarla in Paraguay via mare, con
il suo Yatch privato. Evidentemente non ho mai capito chi fosse e cosa volesse
realmente Marlene. Ma forse questo è oscuro anche a lei.
Devo ammettere che la cosa mi ha fatto male, anche se ormai era già da
tempo preannunciata. Da quando lei ha trovato un posto “fisso” come cubista in
quel cazzo di locale merdoso, le cose si sono notevolmente incrinate; lei ha
perso quella parte spontanea, quasi artistica e si è trasformata in un qualcosa
di ben più triste. Ha incominciato a frequentare party con gente più o meno
ricca, a parlare di cose che una volta avrebbe snobbato, a sorseggiare
champagne offerto da ricconi, alternandolo a qualche tiro di bonza... in poche
parole ha iniziato a trasformarsi in una puttana di lusso.
No, no, la mia non è gelosia, fra noi non c’è mai stato un rapporto fisso,
nessuno dei due ha mai, neanche lontanamente pensato, di fare coppia fissa;
però non mi sarei mai aspettato che mollasse tutto (me compreso) per infilarsi
a capofitto in un mondo da cui stavamo fuggendo insieme!
Sì, è vero mi manca... Cazzo se mi manca, lei mi ha insegnato a
destreggiarmi in mezzo agli americani ed al loro mondo, mi ha insegnato a
parlare in modo meno goffo la loro strana lingua, assieme abbiamo imparato a
conoscere il Brasile, lo spagnolo e la cultura brasiliana, che non si può certo
dire assomigli alla nostra. Assieme abbiamo in parte ripulito le nostre menti e
ci siamo cibati di questo nuovo mondo; abbiamo cercato di trovarne il cuore,
l’anima e di addattarci a quella, farla nostra ed assaporarla fino in fondo; e
in parte ci siamo riusciti.
Assieme siamo partiti da Brownsville per il Messico; abbiamo abitato il
centro storico di Città del Messico, assieme abbiamo visto lo Zocalo, l'Avenida
Maderno Juarez, il parco dell'Alameda, il Paseo de la Reforma/Parco
Chapultepec, il Museo Antropologico, il Castello di Chapultepec. Assieme
abbiamo vissuto ed abbiamo imparato il messico. Siamo passati dalla grande
capitale a posti più vivibili e meno affollati: Aconcagua, Popocatépetl, abbiamo persino abitato una abbandonata
capanna sul Kilimangiaro, dove entrambi abbiamo mangiato per la prima volta un
pejote.
E poi via, di nuovo in una Capitale: Lima, la città dei Re con i suoi mille
musei e la famosa Plaza de Armas.
Arequipa, "Ciudad
Blanca", sempre in Perù, dove abbiamo fatto l’amore la prima volta
con uno scenario da favola dato dal vulcano di lava bianca. Siamo stati
ospitati nel Monastero di Santa
Catalina, una sorta di città nella città, pieno di vicoli e casette, che in
passato arrivò ad ospitare fino a 450 monache, ora specie di centro sociale per
viandanti come noi.
Assieme abbiamo visto il Colca
Canyon, il più profondo del mondo. E poi di nuovo in viaggio spensierati, forse
in piccola parte innamorati, più di quello che stavamo facendo, consumando e
condividendo assieme, che di noi stessi. E di nuovo altre emozioni, altre
scoperte, altre novità: la Bolivia, La plaz dove all’aereoporto acquistando un
giornale italiano ho scoperto che “The Black Ship” si è rivelato, in italia, il
gioco dell’anno e che io sono stato così stronzo o così furbo da scendere da un
treno in corsa, Tiahuanaco, Cocha Bamba, Oruro, Santa Cruz, Potosi e
Sucre.
E ancora in movimento alla volta di Assuncion in Paraguay, posto maleddetto
di cui lei si è innamorata.
Non posso certo darle torto:
il Paraguay conta con un territorio di 400.000 km2, all'incirca un terzo
più grande dell'Italia e con una popolazione di 5.5 milioni di abitanti, quindi
10 volte meno dell'Italia, tutto questo per farvi capire che la prima
cosa che colpisce sono i grandi spazi. Nonostante sia molto distante dal mare è
una vera oasi subtropicale, un posto che incanta.
La zona delle Pampas, il Chaco
Boreal, i resti delle storiche "reducciones", il lago Ypacaraì
e Capiatà, con la sua antica chiesa gesuita, il percorso fluviale in battello
sul Rio Paraguay fino a Concepciòn a nord della capitale oppure, in
alternativa, il tragitto più breve dalla capitale a Villeta in direzione sud.
Le vaste distese del Chaco, le cascate di Iguaçù che si trovano tuttavia poco
oltre il confine in Brasile. Tutti posti che effettivamente, se vissuti e non
visti da semplici turisti lasciano un segno quasi indelebile nel prorpio io.
Ed infine Porto Alegre
dove ci siamo fermati e dove abbiamo vissuto più a lungo.
Tutto quello che ho
condiviso con Marlene non posso certo dimenticarlo in due minuti, non sarà
certo questa nuova partenza, questa piccola fuga nella fuga a salvarmi. Dove
sto andando di preciso non lo sò nemmeno io. Un’ altra volta parto, un’altra
volta scappo, da cosa poi... Da un ricordo di momenti meravigliosi? Da una
situazione che era diventata troppo simile a quella italiana? Da cosa me ne
vado nuovamente?
Un’altra volta su un bus,
ma adesso senza compagna di viaggio e con un senno di poi che mi spaventa. Mi
chiedo se mai riuscirò veramente ad arrivare da qualche parte, a raggiungere un
luogo, una meta o semplicemente un condizione mentale appagante. Mi chiedo se è
quello che mi sta intorno che non riesce a funzionare per sempre o se sono io
che mi abituo troppo facilmente a quello che mi sta intorno, privandomi così di
quell’entusiasmo che solo l’incognito mi sà dare!
Mi chiedo dove e come
sbaglio e sopratutto mi chiedo perchè sbaglio! Sembra tutto così facile, così
semplice, sembra che tutto ti stia andando nel migliore dei modi, quando tutto
ti crolla adosso!
E ora mi aspetta
Cumuruxatiba, che spero sappia ridarmi almeno metà dell’entusiasmo che avevo
quel giorno in aereoporto a Milano.
Ma forse non è tanto il
luogo a non darmi più certi stimoli quanto la mia condizione di vita, che anche
senza che io me ne possa accorgere, si è già addatata, almeno in parte ad un
tenore che tempo fà non sarei mai riuscito a sostenere.
Mai e poi mai sarei
riuscito a liberarmi del telefonino o del portatile (che adesso uso solo per
far sapere ai miei che sono vivo), non sarei mai riuscito a dormire in posti
così squallidi ma talmente semplici da essere belli. Mai sarei riuscito ad
accettare così tanta semplicità nella mia vita, anche se l’ho sempre cercata
non sarei mai riuscito ad apprezzarla in Italia. Oggi sto vivendo una sequenza
di esperienze che mi danno la possibilità di vedere l’altra faccia del mondo,
quella che io ho sempre visto sorridente, entusiasta ed euforica del nulla che
la circonda; ma oggi vivendo ed applicando questa filosofia ho scoperto che
quel nulla è immerso nel sapere, nella consapevolezza di quello che si è, di
dove si può o si vuole arrivare. Quel nulla riempito da ottimismo e sorrisi,
quel nulla così colmo di entusiasmo, a volte quasi ipocrita di sè stesso
nasconde un dolore radicato talmente nel profondo delle persone da essere
dimenticato. Il dolore dell’ invidia e della non conoscenza. Io posso
apprezzare questa condizione di vita perchè io conosco l’altra, quella del
mondo civilizzato, io sò.
Loro, quelli che qua ci
sono nati e non hanno avuto la possibiltà di scelta, ci vedono comodi sulle
nostre poltrone di pelle, davanti alle nostre televisioni o ai nostri computer,
ignari di cosa voglia realmente dire fare due kilometri a piedi per
accappararsi i secchi d’acqua che serviranno per la giornata. Loro ci accusano
di essere superficiali a tal punto da essere odiosi, ma non riescono a capire
quanto semplicemente bello è il loro modo di vivere, e quando provo a
spiegarglielo, non riescono a comprendere perchè ci vedono superiori, ma non
sanno che lo siamo solo praticamente; perchè moralmente ci fanno un culo tanto!
QUINDICESIMO LIVELLO
Si è ormai quasi fatto
notte e questa maleddetta corriera ha già iniziato il tratto di strada di terra
bianca che dall’interno del paese scende giù fino alla costa, fino a
Cumuruxatiba.
Appena arrivati a
destinazione, intorno alle ventirè, mi rendo subito conto che quello che mi
avevano detto di questo posto, corrisponde al vero. E’ un paese di medie
dimensioni, evidentemente abitato in parte da pescatori ed addatato da poco al
turismo. Si nota subito il lungo pontile che dalla spiaggia principale,
difficile da individuare in mezzo alla sabbia a perdita d’occhio, s’intrufola
in mare. Le barche attraccate al pontile, quasi tutte attrezzate per la pesca,
oscillano vistosamente, e l’oceano che s’infrange sulle loro chiglie quasi ti
culla. Il centro del paese ha un’aspetto molto simile a quello di Bonifacio in
Corsica, con la sostanziale differenza che non é arroccato sulla collina , ma
quasi sfiora l’acqua del mare; e sopratutto è molto più povero. Le casette,
altrettanto povere e tutte più o meno bianche si alternano alle capanne di
recente costruzione per i turisti. La brezza che increspa l’oceano rende la
serata molto frizzante e quasi fredda.
Mi infilo nel primo
locale che trovo aperto, un ristorantino, ex locanda di pescatori, addattato
anch’esso al nuovo turismo. Dalla cucina esce una ragazza, che credo sia la
propietaria oltre che la cameriera e quasi senza nemmeno guardarmi, senza
rendersi conto che sono un’estraneo (cosa molto sentita da queste parti) mi
chiede se voglio bere o mangiare.
“Mangiare bene e bere
meglio” rispondo cercando di strapparle un sorrisetto, ma lei impassibile nella
sua aria funeerea si limita a fare un cenno con la testa.
Ritorna portandomi un
cestello di pane, evidentemente fatto in casa almeno da una settimana ed una
caraffa di vino il cui sapore non è migliore dell’aspetto.
La cena invece è ottima,
un pesce che non ho riconosciuto, cotto sulla brace con abbondante sale e contornato da pomodori farciti.
Finisco di cenare, non
domando nemmeno il caffè, notando l’assenza della macchina, e vado a pagare al
bancone.
Chiedo alla tipa poco
simpatica, ma tutto sommato carina, di indicarmi un posto dove poter passare
alcune notti fino a che non trovo una sistemazione più o meno fissa. Lei dopo
avermi guardato in silenzio con la stessa espressione che ha l’esaminatore alla
patente, mi butta una chiave sul bancone e mi dice:
“Capanna numero 35, in
fondo al viale alberato a destra. 10 dollari a notte, per gli stranieri
pagamento anticipato ed in dollari, niente puttane, niente alcol o droghe e
niente casino la notte. “
Ok, le poso 30 dollari
sul bancone, mi prendo la chiave ed esco senza salutare.
La capanna è degna del
suo nome: tetto di paglia spiovente all’esterno oltre le pareti di legno che
non raggiungono lo stesso, amaca al posto del letto e cosa molto importante da
queste parti: zanzariera.
Faccio molta fatica ad
addormentarmi, un po’ per la mia scarsa attitudine all’amaca ed un po’ perchè
mi tormento col pensiero di Marlene, di Alessia, di Miriam, dell’italia, dei
miei genitori, i miei amici, la mia macchina. Mi tormento un po’ con la
nostalgia, che nei poco rari momenti di solitudine affiora.
La mattina ritornando
alla locanda mi rendo conto di quanto effettivamente sia bello il posto.
Credo di avere visto e
vissuto molti più luoghi e più cose di quanto una persona normale riesca a
vedere o provare in un’intera vita. Eppure continuo a provare sempre le stesse
emozioni quando mi soffermo davanti a paesaggi come questi. Continuo sempre a
sorprendermi emozionato, stupito anzi sbiggottito, quasi commosso, di fronte a
tale imponenza della natura. Per fortuna questa è una di quelle cose alla quale
non mi sono ancora abituato.
Faccio colazione con del
latte e con lo stesso pane di ieri sera. Durante la mattinata mi lancio in un
giro esplorativo del paese scoprendo il mercato locale del pesce, che sembra
essere quasi l’unico nutrimento degli indigeni, diversi negozi di artigianato,
evidentemente nati solo per il turismo, ed un centro paese sicuramente più
tipico ed accogliente di quanto lo siano state molte altre metropoli dove ci
siamo fermati io e Marlene in passato.
Nel pomeriggio vado in
spiaggia, dove incontro alcuni turisti, ma non riesco a fare il bagno; l’oceano
continua a spaventarmi a morte.
La sera torno nella
locanda per cenare e dopo una discreta portata, ma inferiore a quella di ieri,
riesco finalmente ad addolcire la proprietaria ed a convincerla a fare due
chiacchere con me, appena finito di lavorare.
Lucia, italobrasiliana,
ventinove anni, mora, tanto ricciola da sembrare un rododendro, carnagione
scura, bel fisico e discreto viso, le mani ruvide e rovinate dal lavoro, orfana
del padre da due mesi che sembra essere stato il fulcro della loro attività ed
unica fonte di sopravivenza.
Lucia mi spiega che la
scortesia che ha nei confronti dei clienti è esclusivamente dovuta alla sua
attuale situazione, mi spiega inoltre che il padre era l’unica persona in grado
di far andare avanti la baracca, era lui che andava la mattina a comprare le
vivande per preparare i pranzi, era lui che teneva i contatti con i tour
operator per far arrivare i turisti, era lui insomma che gestiva tutto; lei e
sua madre si limitavano a fare le pulizie e ad aiutarlo nel modo che lui
indicava loro.
Lucia visibilmente
commossa mi spiega che ora, da sole, non possono andare avanti, che avrebbero
bisogno di trovare un aiuto che sappia come prendere in mano la situazione, ma
che a Cumuruxatiba manodopera non se ne trova molta, e che comunque non
saprebbero proprio come fare a pagarla.
Prima ancora di
chiedermi se queste cose le sta raccontando a me, emerito sconosciuto, solo
perchè sono l’unico sfogo possibile in questo momento o perchè è fin troppo
evidente che sto cercando un modo per vivere a Cumuruxatiba, mi offro
volontario.
“Senti io non credo di
essere proprio all’altezza, ma cosa ho da perdere? “
“No, grazie, sei gentile
ma ti ho già detto che non possiamo permetterci di pagare nessuno”.
“Forse non hai capito,
io come ti ho già spiegato, non sono scappato dal mio paese per cercare qui un
lavoro, ma per cercare un’alternativa al lavoro. Voi mi date da dormire e da
mangiare ed io in cambio vi aiuto. E poi ho anche fatto il cuoco! “
“Non saprei, posso
provare a domandarlo a mia madre, ma lei diffida molto degli estranei, avrà
senz’altro paura che tu voglia soltanto trovare il modo di non pagare il conto!
“
“Nessuno di noi ha nulla
da perdere, tu falle capire questo! “
“Ci provo ma non ti
assicuro niente.”
Lucia mi accompagna alla
mia capanna e se ne torna a casa con la promessa che la mattina seguente a
colazione mi avrebbe saputo dare una risposta.
Il solito pessimo pane,
il solito latte anacquato ed un sorriso di Lucia che mi lascia ben sperare.
Appena la locanda si svuota dei clienti locali, Lucia mi chiama in cucina. Mi
trovo davanti a sua madre, mi sento come ad un colloquio di lavoro, sensazione
che mi ero quasi dimenticato. Mi domando chi cazzo me l’ha fatto fare. La mamma
di Lucia dopo aver confabulato con lei in un dialetto molto stretto, a me
incomprensibile, si presenta:
“Io sono Domitilla la
mamma di Lucia, spero che la tua provenienza, identica a quella del mio povero
marito, ti renda capace di darci una mano. Dopo pranzo vieni qui verso le tre e
vedremo di definire meglio la cosa”
Mi tende la mano e sotto
lo sguardo più sbigottito che entusiasta di Lucia mi da il benvenuto a
Cumuruxatiba ed alla locanda “Vila de Pescadores”.
Esco dalla cucina sudato marcio, e non solo
per il caldo, ma maledettamente consapevole di essere riuscito ancora una volta
a farcela. Consapevole di aver salito un’altro scalino verso la mia meta.
Circa un quarto d’ora prima
dell’appuntamento, Lucia mi viene a svegliare e si dice sbigottita della
reazione di sua madre ed allo stesso tempo contenta di aver trovato qualcuno
che possa aiutarle, di aver forse trovato il modo di tirarsi fuori da una
situazione troppo drammatica per due donne brasiliane sole. Una situazione che
leva il sorriso.
Alcune cose non le ha prorpio dette, ma le ha
ben impresse negli occhi.
Assieme andiamo da sua madre che incomincia
ad elencarmi le cose che potrei fare:
“Visto che hai un passato da cuoco ed io, i fornelli li ho sempre odiati,
potresti metterti in cucina; potresti anche lasciare la capanna e trasferirti
nella stanza che abbiamo di là, intanto è libera e faresti anche da custode,
sai ogni tanto c’è qualcosa che si rompe o delle manutenzioni da fare”.
Io non nego niente, la lascio parlare ed accetto tutto, conserziente come
un ragazzino che patteggia con i suoi genitori pur di ottenere la libera uscita
per il sabato sera. E così inizia la mia nuova avventura, un po’ attratto da
questa totale immersione nella quotidianità di Cumuruxatiba, un po’ attratto,
perchè negarlo, da Lucia e da questo suo modo di farmi sentire quasi un nuovo
componente della sua famiglia.
I primi giorni sono molto duri, scorrono lenti fra migliaia di cose da
fare, da organizzare e da recepire. Bisogna inserirsi con la mente su questo
nuovo registro ed abituarla fino a farle sembrare le cose normali. I primi
giorni bisogna entrare nel ritmo e ci si sente molto sbigottiti, spaesati,
anche se devo ammetterlo, Lucia è veramente brava nel mettermi a mio agio.
Giorno dopo giorno si rivela una ragazza stupenda, capace di una comprensione
tale che sembra quasi riesca a leggere nell’altrui mente.
Lei riesce a d appacificare e sollevare sua madre nei momenti duri e tristi
e contemporaneamente riesce a far sembrare a me tutto molto semplice, mi
propone le cose come se fossero un gioco dove non c’è nulla da perdere.
Io e lei andiamo quasi tutte le sere, dopo il lavoro, sul pontile in mezzo
al mare; ci piace parlare, confessarci l’un l’altro quelli che sono i nostri
stati d’animo in questo particolare e difficile momento della nostra vita, ci
piace ascoltarci, scrutarci e... lo ammetto qualche volta è capitato: baciarci.
Ci piace stare lì, immersi nel silenzio della notte, incrinato solo dal
rumore del mare che si frastaglia sulla spiaggia; ci piace parlare osservando
un tetto di stelle appena appannato dal bagliore delle luci del paese alle
nostre spalle. Ci piace immergerci in quest’atmosfera brasiliana vivere fino in
fondo questi momenti, questa Cumuruxatiba
Anche se gran parte dei miei pensieri è ancora rivolto a Marlene, che sta
per me diventando come Marla in Fight Club: quel taglietto sotto il palato che
si riemarginerebbe se non lo stuzzicassi continuamente con la punta della
lingua; devo ammettere che Lucia è a dir poco intrigante. Sarà questa sua aria
da ventinovenne legata alla mamma ma stracarica di doveri e molto poco propensa
ai piaceri, che mi stuzzica. Vorrei poterle far capire che esistono dei piaceri
che sono tali per tutti e che sopratutto sono accessibili a tutti, anche a lei!
Vorrei farle capire che forse se provassimo a goderceli assieme quei
piaceri, la smetteremmo di giocare a rincorreci come dei bambini troppo timidi,
vorrei dirle di accompagnarmi in camera e di fermarsi a fare due chiacchere ma,
non capisco il perchè, non ci riesco. Forse perchè la vedo troppo indifesa, una
preda troppo facile ed una ragazza troppo vulnerabile, o forse perchè
fondamentalmente ho troppa paura che un nostro rapporto, o peggio, un suo
rifiuto possa fare del male a noi stessi ed a questa meravigliosa situazione
che ci stiamo costruendo.
Mentre i giorni passano aumenta la mia precisa convinzione che la “Vila de
Pescadores” non può funzionare a lungo senza un immediato e radicale
intervento. Non si può raccogliere senza seminare!
Un pomeriggio come tanti, convinco Lucia a prestarmi le chiavi del pick up
che era stato di suo padre. L’avviso di non aspettarmi per qualche giorno e me
ne vado sotto i suoi occhi stupiti e credo impauriti.
Passo i tre giorni seguenti in giro per tutte le discariche del Brasile a
cercare materiale utile e pezzi per riparare il materiale utile. Rientro a
Cumuruxatiba il venerdì sera alle undici e quarantadue, calorosamente accolto
da Lucia ed un po’ meno calorosamente da Domitilla che bestemmia qualcosa in
dialetto; non certo un bentornato. Le invito a seguirmi in strada dove ho
parcheggiato il pick up, il cui cassone contiene una macchina per caffè
espresso quasi funzionante, reti e materassi, un insegna al neon bruttina ma
migliorabile, un juke box ed una stufa per cucine industriali a dieci fornelli.
Non mi è molto difficile scorgere l’entusiasmo negli occhi di Lucia;
sicuramente meno sbilanciato è lo sguardo di sua madre che però, poco dopo, si
lascia scappare un piccolo ma coinciso ringraziamento.
Nei giorni seguenti passo il mio tempo libero a riparare tutte le cose ed a
cercare di installarle nel migliore dei modi.
Una settimana dopo il risultato viene ben accolto dai clienti e la “Vila de
Pescadores” si trova così una degna insegna luminosa, una macchina da caffè
espresso, un juke box che propaga musica in sala, una cucina nuova e sopratutto
dei veri letti all’interno delle capanne.
Mentre io e Lucia diventiamo sempre più intimi, sua mamma fingendosi ignara
del nostro rapporto, mi coinvolge sempre più nelle faccende dell’azienda, fino
a permettermi di occuparmi dei rapporti con i tour operator.
E così a circa un’anno dal mio arrivo a Cumuruxatiba ed in meno di sei mesi
da quando ho sostituito in pieno il papà di Lucia nella gestione dell’azienda,
ho incrementato l’affluenza di turisti al villaggio del centocinquanta per
cento, allacciato rapporti con sette nuovi tour operator, costruito altre
dodici capanne e migliorato le ventitre già esistenti. Ho convinto Domitilla ad assumere alcune
donne del luogo per aiutarci nelle pulizie delle capanne al cambio dei turisti.
L’ho convinta inoltre a comprare un piccolo furgone a nove posti e darlo in
affidamento al figlio del barbiere per fare da spola da Bahia fino al vilaggio;
in modo che i nostri ospiti possano non solo arrivare e partire più comodi che
in corriera, ma che durante il viaggio abbiano anche un autista che faccia un
po’ da guida spiegando loro le meraviglie del Brasile.
Inoltre io e Lucia abbiamo ufficializzato il nostro rapporto e se devo
dirla tutta andiamo veramente bene insieme. Stiamo vivendo un momento d’oro,
stiamo affrontando qualsiasi situazione standoci l’uno al fianco dell’altro ed
aiutandoci a vicenda. Siamo anche riusciti, o meglio è riuscita a farmi passare
la mia piccola crisi nostalgica; quando mia mamma mi ha scritto dicendomi di
essere riuscita, con l’aiuto di un buon legale, ad incassare la mia parte di
soldi per il successo di “The Black Ship”. Parte che ammonta a circa seicento
milioni di lire, depositati in banca e vincolati fino al mio ritorno.
E’ fatta così mia mamma non ci posso fare nulla, lei vede la mia partenza
come una condizione di disagio e farebbe qualsiasi cosa pur di farmi tornare a
casa. Lei vede questa mia esperienza, come una malattia che prima o poi mi deve
passare, e cerca in ogni modo di guarirmi. Purtroppo quello di cui non si rende
conto è che io, in questo preciso momento, l’unica malattia da cui sono
contagiato è la felicità.
Quale male peggiore si può fare ad un malato di felicità se non quello di
volerlo guarire?
Le cose ora mi vanno nel migliore dei modi, ed anche se sò di non essere
nato libero, di non essere nato con la possibilità di scelta, anche se sò di
non aver deciso io dove nascere, di quale sesso, con quale aspetto fisico, con
quale condizione economica e con quale carattere, anche se ho la precisa
convinzione che non sarò mai libero, posso affermare con sicurezza che il mio
piccolo pezzo di mondo me lo sono creato e che me lo stò godendo proprio tutto.
A Cumuruxatiba le cose continuano a scorrere con dei tempi ben diversi da
quelli italiani, qui ogni cosa ha il suo corso, come in Italia del resto, solo
che ha un corso molto più lento. Inizialmente si fa un bel po’ di fatica ad
abituarsi a questi ritmi, noi rispetto ai Brasiliani abbiamo sempre molta
fretta di concludere le nostre vicende e per quanto ci sforziamo di imparare a
vivere in questo Paese, non riusciamo mai a toglierci di dosso quella malefica
fretta che ci contraddistingue.
Ed è forse proprio grazie, o per colpa, di quella che sono riuscito in così
poco tempo a trasformare una pocopiùchelocanda a gestione familiare in un vero
e proprio villaggio turistico. Questi miei interventi hanno suscitato una
grande stima nei miei confronti da parte di Lucia, di Domitilla e di tutto il
paese, ma in realtà non sono certo che abbiano fatto lo stesso effetto su di
me. Voglio dire: sono scappato da un qualcosa che non mi piaceva, per venire
qui a disintossicarmi, per imparare a vivere in un modo più semplice, per
cercare di addattarmi ed abituarmi a qusto strano Paese ed al suo strano ma
tranquillo modo di vivere.
Invece sto facendo l’esatto contrario, sto portando qui quello che mi ero
lasciato alle spalle, sto inconsciamente abituando questo piccolo paese di
pescatori alla mia civiltà.
Sto facendo quello che non avrei mai voluto fare e neanche me ne sto
accorgendo.
Daccordo lo faccio a fin di bene, e poi come faccio a fermarmi ora che sono
tutti così felici dei risultati ottenuti?
Come faccio a fermarmi proprio ora che tutti sono sono così entusiasti
della grande affluenza del turismo, ora che tutti hanno incominciato a vivere e
guadagnare su questo turismo?
Come faccio ora, a dire a tutti che ho sbagliato e che se continuiamo così
ci troveremo immersi nello stress, nelle incomprensioni date dall’ingordigia,
nell’ipocrisia ed in tutta quella merda che caratterizza il mio Paese, il suo
modo di vivere e forse, in parte, anche me stesso.
Come faccio a dire a tutta Cumuruxatiba che li sto portando verso la rovina
del loro paese?
Ma questi problemi non hanno neanche il tempo di assillarmi perchè, come ho
già detto, proprio quando tutto sembra
andarti nel migliore dei modi, tutto ti crolla adosso.
Una sera come tante, appena finito di lavorare nel ristorante, io e Lucia
andiamo a farci la solita passeggiata sul solito molo.
Quel maleddetto molo che ha caratterizzato la nostra storia; lì ci siamo
baciati la prima volta, lì abbiamo deciso di ufficializzare il nostro rapporto,
lì abbiamo preso molte decisioni sulla mia vita e su quella dell’azienda, lì
abbiamo creato la strada che ci ha portato fino a questo punto.
Lucia è molto strana, misteriosa ma stranamente allegra, soddisfatta. Nonostante i miei sforzi per cercare nelle
sue espressioni e nelle sue parole, cosa ci sia questa sera di così diverso
dalle altre, non riesco a trarne una conclusione.
Lei butta diversi sassolini in acqua, lasciando trapelare una vena di
nervosismo che un po’ mi proccupa ed in parte m’infastidisce; mi prende la mano
e mi fissa negli occhi.
“Vladi devo dirti una cosa”
“Dimmi, è una cosa bella o una cosa brutta? “
“Questo me lo devi dire tu Vla “
Inizio a preoccuparmi.
“Ehi, Lucia che c’è ? Così mi fai preoccupare! Andiamo, non ci sono mai
stati segreti tra noi, e non ci sono nemmeno mai stati problemi che non abbiamo
risolto assieme, qualunque cosa sia dimmela e vedrai che troveremo il modo di
affrontarla”
Lei ha gli occhi lucidi, le tremano le gambe ed il sudore nelle sue mani si
rende palpabile; ma io sono sinceramente pronto ad affrontare qualunque cosa,
sono certo di chi è Lucia, e di cosa rappresenta per me, e sono altrettanto
certo di essere pronto ad incassare e forse accettare qualsiasi cosa stia per
dirmi
“Vladi... io... non so come dirtelo”
”Fallo e basta, ti prego”
“Io sono incinta”
Non così tanto pronto cazzo!
SEDICESIMO LIVELLO
Cumuruxatiba, cinque anni dopo, ore due
Lucia dorme tranquilla al mio fianco, mammamia quanto è bella!
Manuel, nostro figlio, dorme altrettanto bene nel suo letto, dove la nonna,
che ormai ha abbandonato le faccende dell’azienda per dedicarsi interamente al
nipote, l’ha lasciato circa quattro ore fà.
Io, appiccicoso dal caldo, mi alzo, mi accendo una sigaretta ed esco a
fumarla per non far respirare il fumo a tutta la mia famiglia. Passeggio lungo i vialetti illuminati che
portano alle capanne dei turisti, ormai diventate centoventuno, lungo il
bagnasciuga della spiaggia rastrellata e riordinata con cura dai bagnini, fra
le sedie alzate sui tavoli del pub del villaggio. Passeggio per la “Vila de
Pescadores” e mi rendo conto di quanto ormai non sia neanche più lontanamente
degna di questo nome.
Quando sono arrivato qui, mi sono innamorato di un piccolo ed umile paese,
di un posto così semplice che quasi sembrava dovesse fermarsi. Oggi non lo
ritrovo più!
Oggi, girovagando per il villaggio turistico e per tutto il paese, respiro
aria di turismo, di pomate abbronzanti e doposole, di gin tonic, di piano bar,
di mance e conti salati, di visite turistiche e guidate, di cellulari, di
televisioni e paraboliche, di comodità e di civilizzazione. Non respiro aria
buona.
Sì lo ammetto, mi sento responsabile, colpevole. So che non è tutta colpa
mia, ma so anche che il “la” l’ho dato io, che la prima scintilla è partita da
me; e questo non riesco a perdonarmelo.
Torno a casa: un bel villino fatto costruire sulle alture del vilaggio ben
distante dal frastuono dei turisti in spiaggia o ammassati nel centro negozi o
nella discoteca.
Salgo al piano di sopra, in camera, stando bene attento a non svegliare
nessuno, tantomeno Domitilla che dorme al primo piano, ma fortunatamente in una
stanza distante dalla porta di casa. Dal secondo cassetto del mobile centrale
della nostra camera, estraggo i miei documenti ed una stecca di sigarette. Tolgo
dalla cornice la foto di famiglia, che Lucia tiene sul comodino e me la metto
in tasca; scrivo poche righe per lei e per mio figlio su di un biglietto che
lascio al posto della foto. Scendo al
piano di sotto e nel più silenzioso dei modi m’infilo in tasca una manciata di
banconote di piccolo taglio e le chiavi del furgoncino che il figlio del
barbiere usa come bus per i clienti.
Percorrendo con il furgone la strada d’uscita del villaggio ed il vecchio
centro storico di Cumuruxatiba, cerco di memorizzare quanti più dettagli
possibili.
Imbocco la strada sterrata che porta a Bahia alle due e cinquantasette e
prevedo di essere a Rio de Janeiro entro le cinque del pomeriggio di domani.
Verso le nove del mattino mi fermo in una specie d’area di servizio per fare
colazione con del caffè nero bollente, servitomi da un’anziano signore che
parla dialetto.
Arrivo all’aereoporto di Rio de Janeiro nel tardo pomeriggio e dopo tre
pacchetti di sigarette.
Una rapida occhiata al tabellonedelle partenze, e mi affretto a prendere il
biglietto per il volo 762 in partenza per Malpensa. Da Milano a Genova poi sarà
un attimo.
Butto uno sguardo alla foto della mia famiglia, mi volto a guardare il
Brasile fra le vetrate dell’aereoporto, e senza più voltarmi percorro la corsia
d’imbarco.
GAME OVER
Noo, non ci posso credere, proprio ora che l’avevo quasi finito; non ci
posso credere!
Sarei stato il primo fra i miei amici a terminare The Black Ship. Pensavo che ambientare il gioco sulla sua
stessa storia fosse un’ideona, e invece...
Ora mi tocca rincominciare tutto da capo, in un altro tempo, con altri
personaggi. Che palle!
Questa volta però provo ad ambientarlo nel passato.
demo
inizia
nuova partita
pausa
riprendi
partita
salva
carica
salvataggio
esci
Siena, ore cinque e quaranta,
Il Canto del gallo, puntuale
come al solito mi sveglia; le braci ancora accese nella stufa, conferiscono
all’aria quel tepore che....
FINE
Per le
citazioni non citate, mille grazie o mille scuse, vanno a:
Luciano
Ligabue
|
Charles
Baudelaire
|
Francesco Guccini
|
Rolo
Diez
|
Senso Unico
|
Charles Bukowski
|
La Rosa Tatuata
|
John Fante
|
Genialando
|
Tiziano Sclavi
|
Quartiere Latino
|
Albert
Hofmann
|
Lorenzo Cherubini
|
Sigmund
Freud
|
Timoria
|
Gabriele Salvaores
|
Articolo 31
|
Bernardo Bertolucci
|
99
Posse
|
Milo Manara
|
Fabrizio De Andrè
|
Cristian Cull
|
Andrea De Carlo
|
Catanese Antonio
|
Enrico Brizzi
|
|
Chimo
|
|
Nicholas Evans
|
un giorno guidati da stelle sicure
ci ritroveremo in qualche angolo di mondo
lontano
nei bassifondi tra i musicisti e gli sbandati
o sui sentieri dove corrono le fate..
Modena City Ramblers
e all’improvviso l’età disperde
quello che credevo e non sono mai stato
Francesco Guccini
forse saranno cose già sentite,
o scritte sopra un metro un po’ stantio,
ma intanto questo è mio!
Francesco Guccini